Se Giacomo Moceri ha pensato a inventarsi nel 2019 #Siciliansays il motivo ispiratore è ricollegabile, principalmente, a suo nonno Andrea. Il perché sta in quel rapporto tra nonni e nipoti che finanche il Papa dice di salvaguardare per il valore che ha. Quello tra Giacomo – 31 anni – e suo nonno Andrea – scomparso nel 2010 – è stato un bagaglio pieno di raccontare/apprendere che non si è mai svuotato. «Mio nonno mi ripeteva sempre: ficu fatta, carimi ‘mmucca, un detto che solo i siciliani posso capire e che esprime la necessità di darsi da fare, senza aspettare che il frutto maturo cada in bocca senza muoversi», dice Giacomo. Con una frase suo nonno Andrea ha insegnato a Giacomo a non rimanere silente, avvolto dall’apatia, trasmettendogli il valore del lavoro e dell’impegno. Dei racconti del nonno Giacomo ne ha fatto tesoro per la vita. I suoi studi prima a Castelvetrano poi tra Parma e Venezia e quella capacità critica che non ha mai abbandonato, mettendola a frutto tra studi, lavoro e hobby (foto, pallavolo).

Nel 2019 è nato il progetto #Siciliansays: «Non mi sono inventato nulla – racconta Giacomo – ero a Venezia dove ho abitato per studi e lavoro, e ho sbirciato sul web i profili di successo di “SardinianSays” e “Rome Is More”. Così ho pensato: perché non fare qualcosa per la lingua siciliana?». È nato dapprima il profilo Instagram, poi il merchandising e una lunga ricerca di vocaboli – alcuni davvero quasi dimenticati ed emblematici – che scavano, fra antropologia e tradizione, nella Sicilia antica. Idea geniale, fuori i canoni standard della scrittura da romanzo, che Giacomo ha saputo trasformare in un’opportunità, non solo commerciale ma di riscatto per una lingua – il siciliano – che merita di non essere dimenticata.

Dall’esperienza di #Siciliansays quest’anno ne è nato un prodotto editoriale, un libro dal titolo “Amunì”, ossia let’s go, edito da Giunti, che raccoglie tutte le parole siciliano/inglese con i loro significati. Giacomo Moceri ha aggiunto aneddoti personali, curiosità storiche e approfondimenti culturali affinché del siciliano si possa avere una visione completa e autentica: 264 pagine che raccolgono 10 capitoli orientando il lettore tra i temi più ampi e curiosi di discussione tra i siciliani.

Se “amunì” diventa “Let’s go” in inglese, “Betta cuntraruisa” diventa “Beth the contrary”. «Non è facile spiegare a un inglese chi è “Betta cuntraruisa” – sorride Giacomo Moceri – vocabolo in uso tra le famiglie siciliane quando c’è qualcuno che fa il bastian contrario». E poi ancora “panza e prisenza”, detto utilizzato quando, invitati da amici, si arriva senza nulla in mano, oppure “chi nicchi e nacchi?”, ossia che c’entra quando, ad esempio, si ordinano le arancine (che si mangiano rigorosamente con le mani) e si chiedono pure le posate. L’ultimo capitolo Giacomo Moceri lo dedica alla mafia, termosifoni e altri stereotipi. La Sicilia è stupenda ma si mangia tardi e la mafia c’è ancora: «Non è più quella di coppola e lupara – dice Giacomo Moceri – non ci sono più “ammazzatine” e i tempi sono cambiati…». Il dialetto siciliano, però, rimane quello che spesso fa sorridere e riflettere. Dietro un detto o una frase ci sono verità nascoste. E il fico maturo i siciliani non possono più aspettare che gli cada in bocca. Da qui “Amunì”, ossia alzarsi e camminare.

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