Il Comitato “La Sicilia e i Siciliani per lo Statuto” promuove il “Dossier di denuncia all’ONU della questione Siciliana” ed invita i cittadini, le associazioni ed organizzazioni civiche, culturali e politiche presenti in Sicilia di associarsi all’iniziativa nello spirito del reciproco interesse.

Sollecitati dal nostro fratello Frank Leone che vive negli Stati Uniti, abbiamo preparato, con il contributo determinante del prof. Massimo Costa, un dossier sulla “Questione Siciliana” – che oggi significa mancata attuazione dello Statuto di Autonomia – da consegnare all’ONU tramite lo stesso Frank Leone che sarà il nostro messaggero.

La finalità è quella di denunziare all’Organizzazione delle Nazioni Unite la situazione di illegalità costituzionale in cui versa la Sicilia.

Invitiano tutti a leggere il dossier che, in poche pagine, riassume i termini della questione.

Il dossier è reso pubblico prima della consegna all’ONU e potrà essere sottoscritto da quei cittadini e quelle associazioni che si vorranno unire al nostro Comitato nella denuncia.

Per associarsi e sottoscrivere l’iniziativa, comunicare la propria adesione inviando una mail al seguente indirizzo: comitato@lasiciliaeisicilianiperlostatuto.org , scrivendo mi associo ed aderisco alla Denuncia contro la Repubblica italiana per violazione della propria Costituzione, dello stato di diritto e dei diritti delle minoranze in relazione alla ‘Questione Siciliana’

Testo Integrale del DOSSIER

Denuncia contro la Repubblica italiana per violazione della propria Costituzione, dello stato di diritto e dei diritti delle minoranze in relazione alla ‘Questione Siciliana’

Premessa 

Con questo documento viene presentata denuncia alle Nazioni Unite contro la Repubblica italiana per aver sistematicamente violato e disatteso il proprio stesso ordinamento costituzionale che riconosce alla Comunità Siciliana una peculiare autonomia all’interno della Repubblica secondo una Carta fondamentale, lo Statuto della Regione siciliana, la quale costituisce un allegato aggiunto dai Padri costituenti alla Costituzione, e quindi parte integrante della Costituzione stessa.

Ad oggi, 2012, la Repubblica italiana ha messo insieme una serie di leggi, atti amministrativi e sentenze in-costituzionali che inibiscono radicalmente e definitivamente l’esercizio dell’Autonomia prevista dallo Statuto in parola ed ha altresì privato i Siciliani della possibilità di qualunque tutela giurisdizionale per i propri diritti.

Per ricostruire gli elementi fondamentali di questa violazione grave dei principi dello stato di diritto in quella che viene considerata una delle principali democrazie dell’Europa e del mondo occidentale, è necessaria una ricostruzione storica accurata degli eventi fondamentali della stessa, con riserva di allegare successiva e più mirata documentazione in cui si dà evidenza dei tratti fondamentali della vicenda qui delineati.

Le radici storiche dell’Autonomia siciliana

La Sicilia, a differenza di altri stati italiani preunitari, era depositaria nell’Antico Regime da secoli di una piena sovranità statuale, ancorché la sua monarchia fosse in Unione personale con altre corone. Essa infatti non era un “Ducato”, “Principato” o “Signoria” qualunque come i vari staterelli dispotici della Penisola, ma un vero e proprio Regno, proclamato solennemente il 25 dicembre del 1130 e universalmente riconosciuto nel diritto internazionale dei tempi.

In quella stessa data fu costituito, prima ancora che in Inghilterra, il primo Parlamento sovrano del mondo che incoronò il re non più solo per ‘Grazia di Dio’ ma anche per ‘Volontà della Nazione’ e quell’antico Regno donò al mondo il primo germe della libertà, della rappresentatività, dello stato di diritto; quel Parlamento poi sarebbe stato mantenuto per secoli e la stessa Assemblea Regionale Siciliana attuale ne costituisce l’ultima erede.

Sottoposta per breve tempo all’usurpazione angioina (1266-1282) la Sicilia riconquistò col sangue contro tutti i potentati del tempo nel Vespro (1282-1302) la propria indipendenza come Isola-Stato. L’indipendenza del Regno di Sicilia fu infine pienamente riconosciuta dal Papa e dal Regno di Napoli con la pace del 1372.

Da questo momento, e per secoli, la Sicilia continuò la propria vita di monarchia autonoma e parlamentare, con la propria bandiera, le proprie leggi, le proprie armate, sebbene dal 1412, essa, di fatto, ma non di diritto, perdesse la propria piena indipendenza per essere entrata in ‘Unione personale’ con la Corona di Aragona.

È vero che da allora fino all’epoca napoleonica la Sicilia non ebbe più re proprio, ‘unita’ di volta in volta all’Aragona, poi alla Spagna, poi al Piemonte, poi all’Austria, infine a Napoli. Ma, durante tutti questi secoli, nessun Re di Sicilia si sognò mai di mettere in discussione l’indipendenza formale del Regno e tutti, prima di assumere la corona ‘costituzionale’ di Sicilia, dovevano giurare fedeltà alle ‘Costituzioni e Capitoli’ del Regno e in particolare ai Capitoli di Catania del 1296 che sottoponevano il re al consenso del Parlamento il quale, soltanto, aveva il diritto di approvare i documenti finanziari dello Stato. Tale autonomia non era soltanto formale: non un centesimo lasciava la Sicilia per approdare, sotto forma di tributi, ad altro stato; nessun magistrato o ufficiale del regno, all’infuori del Viceré, poteva non essere cittadino siciliano (o ‘regnicolo’ come si diceva allora); persino i dispacci e le prammatiche reali erano soggette ad un provvedimento esecutivo interno, prima di dare efficacia agli stessi nei confini del Regno, per verificare che essi fossero compatibili con l’ordinamento costituzionale e normativo siciliano.

Gli abusi costituzionali precedenti alla concessione dell’Autonomia che ne giustificarono la concessione

Il collasso del Regno di Napoli per effetto dell’invasione napoleonica (1798) riportò in Sicilia il re, il quale, con fasi alterne, riprese a dirigere direttamente gli affari di Stato sino al Congresso di Vienna (1814-1815). In questa fase il Regno di Sicilia, sotto la protezione britannica, si trovò di nuovo pienamente indipendente e riformò la vecchia costituzione del 1296, dotandosi nel 1812 della prima Costituzione pienamente liberale mai approvata in uno stato di lingua italiana, con un Parlamento bicamerale, al posto di quello vecchio tricamerale, e sul modello inglese, di cui condivideva peraltro la lontana comune origine nella monarchia normanna.

La Sicilia lottò al fianco del Regno Unito durante le Guerre di Coalizione contro Napoleone, e – in teoria – si sedette al Congresso di Vienna come paese vincitore.

In pratica essa fu tradita dal suo stesso sovrano che, in cuor suo, era restato sempre il ‘Re di Napoli’ e concepiva la Sicilia come una provincia da dominare. Con una traduzione dei trattati fedifraga dal francese all’italiano da ‘Roi de Deux Siciles’ (antica espressione che simboleggiava la vecchia unione personale del Regno di Napoli, o ‘Sicilia al di qua del Faro’, con il Regno di Sicilia o ‘al di là del Faro’) a ‘Re del Regno delle Due Sicilie’, egli unificò (1816) la corona del Sud Italia con quella siciliana, strappando la Costituzione del 1812, di cui proprio quest’anno ricorre il bicentenario. La Sicilia fu ridotta ad una colonia senza nome, governata in modo poliziesco da un Luogotenente.

Ed è proprio con questo ‘strappo’ di circa duecento anni fa che nasce la Questione Siciliana, ad oggi ancora irrisolta, sul rapporto istituzionale tra Italia e Sicilia. I Siciliani non riconobbero quel colpo di stato come pure protestò, invero debolmente, il Regno Unito, tacitato con generiche promesse di forme di autonomia o decentramento e di riconvocare il ‘Parlamento’ di Sicilia in occasione dell’istituzione di nuovi tributi per la Sicilia, proprio perché persino la Casa Borbone sapeva benissimo che l’Autonomia tributaria era l’elemento essenziale delle istituzioni siciliane, quello su cui si era consumata la Rivoluzione del Vespro secoli prima. È appena il caso di dire che quelle promesse, già sancite solennemente nel decreto di riunificazione dei due Regni, furono sistematicamente tradite e disattese dal despota.

Da quel momento la storia di Sicilia è una sequenza ininterrotta di rivolte, congiure, sommosse in cui, in ogni modo, i Siciliani rivendicavano il loro diritto all’Autogoverno. Proprio mentre nella Penisola iniziava il Risorgimento italiano, in  cui gli italiani cominciarono a lottare per avere un Paese libero e indipendente, i Siciliani continuarono a lottare essenzialmente per la loro indipendenza, tutt’al più nell’ottica di una blanda confederazione ‘italica’ nella quale lo Stato siciliano sarebbe dovuto confluire.

Fra le più importanti rivolte ricordiamo intanto quelle del 1820 e del 1837. Durante la prima più di due terzi dell’Isola furono riguadagnate all’indipendenza e richiamata in vigore la Costituzione del 1812, considerata l’unica legittima. Napoli riuscì a venire a capo di questa Rivoluzione con promesse di ampia autonomia all’Isola nel quadro dell’Unione delle Due Sicilie. Tornati in possesso dell’Isola, però, le trattative furono sconfessate dal governo napoletano, e, a parte alcune trascurabili concessioni, si tornò all’oppressione dispotica verso i Siciliani, i quali risposero come si è già detto.

Dopo la sfortunata rivolta del 1837, il Governo delle Due Sicilie cominciò davvero a smantellare le istituzioni autonome del Regno di Sicilia che, nonostante tutto, erano sino ad allora sopravvissute.

La frattura tra le due parti del Regno divenne sempre più profonda, finché il 12 gennaio 1848 non scoppiò una generale Rivoluzione, la quale, oltre ad infiammare l’Europa intera con le idee di libertà e di costituzione, cacciò gli usurpatori in poche settimane al di là dello Stretto tranne pochi soldati asserragliati nella cittadella fortificata di Messina, praticamente imprendibile.

Il Regno di Sicilia, risorto dalle ceneri, richiamò in vigore l’antica costituzione del 1812, e, con quella, si dotò di una nuova Costituzione, talmente democratica da rivaleggiare con quelle del XX secolo. Questa volta, però, adottò il Tricolore e programmò di far confluire l’antico stato mediterraneo in una ‘Confederazione’ o ‘Lega’ Italica, quando questa fosse stata costituita. Sebbene la Sicilia indipendente fosse protetta da Francia e Gran Bretagna, essa non ebbe il tempo di avere i riconoscimenti internazionali necessari a stabilizzare la conquista di questo Nuovo Vespro. Abbandonata a se stessa, dopo 16 mesi dovette capitolare, sebbene questa volta il Regno delle Due Sicilie, veramente minacciato nella propria sopravvivenza, concesse alla Sicilia un’autonomia profondissima e sostanziale, persino con una polizia e un istituto di emissione propri. L’ultimo capo di stato provvisorio, il ‘Presidente del Regno’ Ruggero Settimo, ‘Padre della Patria Siciliana’, fu accolto a Malta con gli onori riservati ai capi di stato, dove morì in solitudine, senza accettare la carica di Presidente del Senato italiano che gli sarebbe stata offerta a Italia unita nel 1861.

Ma quasi nessuno considerava più in Sicilia legittimo il governo borbonico. Quando Garibaldi, sotto protezione ancora una volta britannica, sbarcò a Marsala nel 1860, lo stato duosiciliano si sciolse quasi come neve al sole in poche settimane. Questa volta, però, il progetto politico era diverso da quello della Restaurazione dell’Autonomia dell’antico Regno; questa volta le élites italiane e internazionali avevano progettato l’annessione della Sicilia all’Italia. E tuttavia questa annessione doveva avvenire nel segno della continuità con le uniche istituzioni che potevano vantare in Sicilia legittimità secolare: quelle del Regno di Sicilia.

Per questa ragione Garibaldi a Salemi assunse la ‘Dittatura della Sicilia’, della sola Sicilia, proclamandone intanto implicitamente l’indipendenza da Napoli. Per questa ragione costituì un Governo provvisorio sovrano della Sicilia, distinto da quello che poi avrebbe costituito nelle Province Napoletane una volta conquistate anche quelle. Questo governo aveva anche dicasteri degli Esteri e della Guerra, come si conveniva ad uno stato sovrano, benché esplicitamente programmato per confluire nel nuovo Stato italiano.  Per questa ragione negli atti ufficiali del governo dittatoriale la monarchia borbonica venne considerata ‘usurpatrice’, considerando legittimo quindi l’atto formale di perpetua decadenza votato dal Parlamento di Sicilia nel 1848 per alto tradimento. Per questa ragione, infine, i provvedimenti del Governo rivoluzionario del 1848-49 furono espressamente richiamati in vigore e disconosciuti i successivi, laddove – è bene ricordarlo – a sua volta quel Governo rivoluzionario aveva richiamato, in quanto compatibili coi nuovi tempi, gli ordinamenti antichi precedenti al 1816, cioè quelli dell’originario Regno di Sicilia.

L’Italia quindi, in Sicilia, intendeva esplicitamente fondare la propria legittimità sulle ceneri del Regno di Sicilia e non del Regno delle Due Sicilie. Persino nel decreto di conversione delle vecchie valute preunitarie nella nuova ‘lira italiana’, l’‘onza siciliana’ fu riconosciuta con il proprio cambio perpetuo e definitivo ufficiale, senza essere confusa con il ‘ducato napoletano’ con il quale pure era in tasso di conversione fisso sin dal lontano 1734. Le élites siciliane, le uniche che potessero allora rappresentare una volontà politica del Paese, non intendevano però consegnare il proprio antico Stato in maniera incondizionata all’Italia: il mantenimento di uno stato semi-indipendente o comunque fortemente autonomo all’interno dell’Italia era semplicemente implicito.

Non a caso, quando il pro-dittatore La Farina introdusse una serie di provvedimenti che estendevano semplicemente alla Sicilia la legislazione piemontese, questi fu costretto alle dimissioni e il suo successore, fu costretto a convocare, per il 21 ottobre del 1860 un’Assemblea, con le leggi elettorali della Costituzione del1848, inpratica un Parlamento, che avrebbe dovuto decidere, da paese sovrano, le forme e i modi dell’annessione della Sicilia all’Italia. Pertanto, al di là dell’unità politica della Sicilia con l’Italia, unico elemento fuori discussione, per tutto il resto la Sicilia avrebbe dovuto mantenere la propria sovranità e decidere essa stessa come ‘diventare italiana’.

A questo punto, su istanza del governo sardo-piemontese, in teoria ancora un governo estero, avvenne un vero e proprio ‘colpo di stato’. L’esercito, ormai italiano, aveva progressivamente invaso l’Isola ed impedì la convocazione legittima dell’Assemblea-Parlamento, trasformandola in un Plebiscito, formalmente distinto da quello analogo che veniva proposto per le ‘Province Napoletane’, ma da tenersi in quello stesso 21 ottobre.

Il Plebiscito fu un atto completamente nullo da un punto di vista giuridico. Non vi fu nessuna regolarità nel voto. Il voto era palese e prestampato su due schede di colore diverso, senza stabilire quale sarebbe stata l’alternativa nel caso in cui avesse vinto il NO, e addirittura con due urne separate, per i due voti teoricamente possibili. Tra mille irregolarità fu proclamata la volontà dei Siciliani di disciogliere il proprio stato e consegnarlo nelle mani di Vittorio Emanuele II, re d’Italia.

Ancora, nonostante, il ‘colpo di stato’ ormai consumato, il ‘Consiglio di Stato’ siciliano ebbe il coraggio di presentare comunque un progetto di Autonomia regionale siciliana al nuovo sovrano; progetto così avanzato da destare stupore e sconcerto in Italia, perché si disse che i Siciliani pretendevano di avere ‘uno Stato nello Stato’.

Il 4 dicembre 1860 la Sicilia come Stato cessa anche formalmente di esistere e confluisce in uno Stato italiano in costruzione, che sarà proclamato poi finalmente solo il 17 marzo 1861. Il Governo accetta in minima parte le richieste dei Siciliani concedendo una limitata forma di autonomia con un Governo separato, ma, già nel 1862, prendendo a pretesto alcuni disordini causati dal malgoverno dello stesso governo italiano, assai peggiore di quello napoletano, questa fu prontamente revocata e la Sicilia fu sottoposta ad un continuo e vessatorio Commissariamento militare.

Da quel momento formalmente la Sicilia sarebbe dovuta entrare nell’ordinamento unitario e liberale italiano, ma nella realtà era terra di conquista, soggetta ad ogni forma di saccheggio, disprezzo, leggi marziali e mortificazione. In breve lo Stato italiano divenne un corpo estraneo che perse il controllo del Paese. La Sicilia non partecipò alla Guerra del Brigantaggio degli anni ’60, vera Guerra di Secessione italiana, con cui il Sud fu umiliato e decapitato: troppo recente il ricordo dei Borboni per solidarizzare con i meridionali dell’altra sponda dello Stretto, troppo lontani i finanziamenti dallo Stato della Chiesa dove erano i rifugiati del vecchio regime, ancora diffusi nell’Isola i simpatizzanti di Garibaldi che, per molti, era divenuto simbolo dell’Italia ‘buona’ contro quella ‘cattiva’ che poi aveva preso il sopravvento.

Ma l’esplosione arrivò dopo, nel 1866, con una rivoluzione sostanzialmente separatista, di cui l’Italia riuscì a venire a capo, in soli sette giorni e mezzo, a mezzo di sanguinarie esecuzioni sommarie e selvaggi rastrellamenti che ancora non trovano spazio nei nostri libri di storia. A un certo punto lo Stato italiano sarebbe riuscito a pacificare l’Isola, dagli anni ’70 circa, ma al prezzo gravissimo di delegare il controllo del territorio a quegli stessi malfattori ai quali si era appoggiato per la Spedizione dei Mille del 1860. Era nata così la ‘mafia’, più collaboratrice che nemica dello Stato italiano, onta sino ad allora sconosciuta al Popolo Siciliano che, da allora, sarebbe rimasta attaccata alla sua pelle come un marchio infamante.

Ancora, furono la mafia e la repressione con lo stato d’assedio, gli strumenti con i quali fu domata la protesta, tendenzialmente rivoluzionaria e socialista, dei Fasci Siciliani, sul finire del XIX secolo. Un tentativo serio di decentramento amministrativo, per mezzo dell’Istituzione dell’Alto Commissariato Civile per la Sicilia, fu di poca durata (1896-97). Ad ogni modo, allentata la morsa, ripristinate le libertà fondamentali, ampliata la platea dei votanti, fatalmente tutta la Sicilia richiedeva, ora per via politica, di rivedere le condizioni dell’annessione. Tutta l’economia, la società e la cultura siciliana, tra fine XIX e inizi XX secolo sono etichettate come ‘regioniste’ perché credevano nella ineluttabilità di concedere alla Sicilia una qualche forma di autonomia se si fosse voluta salvare l’appartenenza di questa antica Terra alla più grande Nazione italiana.

Ricordiamo appena il premio Nobel Pirandello che ne I Vecchi e i Giovani, manifesta tutta la propria disillusione di siciliano per i 50 anni di Unità d’Italia. Ricordiamo il pensiero cattolico popolare di don Luigi Sturzo, cui si aggiunse quello del liberal-democratico Finocchiaro Aprile che aprirono la strada ad una soluzione autonomista della Questione Siciliana.

Le esigenze di unità imposte dalla I Guerra mondiale e poi la dittatura fascista soffocarono ancora una volta le istanze dei Siciliani, costringendoli a diventare sotterranee.

Il fascismo destrutturò quel po’ di tessuto industriale di cui la Sicilia si era faticosamente dotata a cavallo tra i due secoli e la trasformò in ‘Granaio dell’Impero’, condannandola ad una sorta di condizione di colonia agricola. Nel 1940 i funzionari pubblici siciliani furono oggetto di una deportazione di massa.

Le vicende dell’inserimento dell’Autonomia siciliana nella Costituzione della Repubblica italiana

Nel 1943, quando la Sicilia fu occupata dalle forze Alleate, si scatenò un fortissimo vento separatista cui però non venne accordata la richiesta di chiedere ai Siciliani, per mezzo di referendum, quale dovesse essere la soluzione istituzionale più adeguata per loro.

Dapprima l’Isola fu soggetta all’amministrazione dell’AMGOT, poi fu restituita all’Italia nel 1944, già entrata nell’alleanza militare occidentale nel frattempo, con l’indicazione di trovare una soluzione autonomista alle tante prevaricazioni istituzionali, sociali ed economiche che la Sicilia aveva subito.

Così nel marzo del 1944 la quasi totalità dell’amministrazione statale in Sicilia venne posta alle dipendenze di un nuovo Alto Commissariato Civile per la Sicilia, il quale, nel dicembre dello stesso anno, fu affiancato da una Consulta, dove erano rappresentati tutti i partiti e le forze sociali dell’Isola, ad eccezione del movimento separatista, primo embrione di Parlamento regionale a quasi cento anni dalla chiusura di quello precedente. Le repressioni militari, tra cui la strage di Via Maqueda a Palermo, e le continue insurrezioni stavano comunque facendo sfuggire al controllo la situazione complessiva.

La Consulta regionale siciliana si diede funzioni costituenti e approvò, nel 1945, uno Statuto di Autonomia, che avrebbe finalmente pacificato la Sicilia con l’Italia e che avrebbe accordato alla prima una amplissima sfera di competenze, ai limiti della confederazione e della piena sovranità. Nel frattempo, fuori dalla dialettica politica ufficiale, lo scontro tra Stato italiano e movimento indipendentista raggiunse toni sempre più forti, con la messa al bando del movimento da parte dello Stato e con la ricorsa alla lotta armata da parte degli indipendentisti.

Il paese sembrava scivolare verso la guerra civile, mentre tutti i partiti unitari, con pochissime eccezioni, erano comunque fautori di un’ampia autonomia per l’Isola.

Ai primi del 1946 si giunse tuttavia ad una pacificazione. Lo Stato, con pochissimi emendamenti, accettò lo Statuto Siciliano elaborato dalla Consulta regionale, che pertanto assunse una natura pattizia, cioè di un vero e proprio Trattato fra quelli che allora erano i rappresentanti legittimi del Popolo Siciliano da un lato e lo Stato Italiano dall’altro. I nazionalisti siciliani furono scarcerati e fu concesso loro di riprendere la loro attività politica, mentre questi stessi abbandonavano la lotta armata e sostanzialmente accettavano anch’essi l’Autonomia, considerandola comunque una loro conquista indiretta, e rinviando l’indipendenza a un lungo termine indeterminato.

Tutto ciò determinò la rapida chiusura della vicenda separatista iniziata poco prima dello sbarco alleato (nel 1942) come risposta al colonialismo interno che l’Italia aveva esercitato nei confronti della Sicilia. Il 15 maggio del 1946, re Umberto II, già in campagna referendaria per la monarchia (campagna che avrebbe perso poco dopo, il 2 giugno), firmò ufficialmente il Decreto n. 155 con cui lo Statuto della Regione siciliana diventava legge costituzionale dello Stato italiano prima ancora che questo elaborasse la nuova Costituzione repubblicana successiva al fascismo.

Gli animi allora erano ben disposti e molto diversi da quelli del 1860. I Siciliani andarono a votare in massa per le prime elezioni libere, lo stesso 2 giugno del 1946, e con il loro voto, persino quello dei partiti indipendentisti, sancirono finalmente la legittimità dell’appartenenza della Sicilia all’Italia, nel quadro della conquistata Autonomia, considerata la diretta erede di nove secoli di stato e parlamento propri. Si credeva che ora era soltanto questione di tempo e lo Statuto avrebbe esplicato i propri effetti.

Purtroppo così non è stato e ancora una volta la Sicilia ha visto conculcati i propri diritti, questa volta pur scolpiti nella Carta Costituzionale della Repubblica italiana.

L’Assemblea costituente italiana (1946-48) discusse animatamente lo Statuto siciliano, da coordinare con la nuova Costituzione, e moltissime furono le resistenze e le ostilità con cui questo fu accolto sin dall’inizio. Alla fine prevalse l’idea che l’Italia dovesse avere un ordinamento regionale con autonomie differenziate.

Il territorio propriamente detto della Penisola, dalle Alpi alla Calabria, fu suddiviso in 15 regioni a statuto ordinario (che poi sarebbero state istituite soltanto nel 1970), mentre per le regioni alpine con la presenza di peculiari questioni etniche o di confine (Valle d’Aosta, Trentino – Alto Adige, Friuli – Venezia Giulia) e per le due grandi isole (Sicilia e Sardegna) venivano riconosciute autonomie speciali e quindi differenziate da quelle ordinarie. Le principali differenze tra le autonomie ordinarie e quelle speciali erano la presenza di riconosciute competenze legislative esclusive per le Regioni ‘speciali’, nonché la tutela delle stesse autonomie per mezzo di vere e proprie ‘leggi costituzionali’ che costituivano veri e proprie appendici o allegati al testo base della Costituzione.

Così stabilì la Costituzione approvata nel dicembre del 1947 e la stessa, nelle proprie disposizioni finali, aggiungeva che la stessa Assemblea Costituente, prima di sciogliersi, avrebbe dovuto approvare gli Statuti speciali in questione. Nella realtà fu rinviato (al 1964) quello relativo al Friuli – Venezia Giulia poiché su quel versante era ancora aperta la questione internazionale dello status della Città di Trieste, da regolare con il governo jugoslavo. Gli altri quattro statuti furono effettivamente approvati dall’Assemblea Costituente e, fra questi, anche quello della Regione siciliana, con la legge costituzionale n. 2 del 1948.

In realtà, però, mentre per gli altri tre statuti si trattò di una vera e propria istituzione, che consentì a queste regioni di avviarsi tra il 1948 e il 1949, per la Regione siciliana si trattò semplicemente di una ricezione, senza alcuna modifica, dello Statuto già concesso nel 1946.

Lo Statuto concesso da re Umberto II, così, entrava tale e quale nell’ordinamento repubblicano, nonostante le asperrime ostilità che si erano manifestate contro di esso in Assemblea Costituente, soprattutto nelle parti di esso che disponevano per la Sicilia la presenza di una ‘Alta Corte’, cioè di una corte costituzionale speciale, e della gestione separata delle riserve auree e valutarie, che sottointendevano la restituzione all’Isola del proprio istituto di emissione, che aveva battuto moneta ben oltre l’unità d’Italia e sino al 1926, quando le funzioni di emissione furono centralizzate alla Banca d’Italia. Alla fine queste ostilità furono vinte con l’aggiunta di una disposizione che avrebbe consentito, nei due anni successivi, modifiche unilaterali da parte dello Stato dello Statuto per un non meglio specificato ‘coordinamento’ dello Statuto con la Costituzione.

Ma nel frattempo la Regione, sia pure molto in parte, aveva cominciato a funzionare, già prima che l’Italia si fosse dotata di una Costituzione. Il funzionamento della Regione dipendeva (e dipende) in gran parte dalla elaborazione di disposizioni attuative da parte di una Commissione paritetica Stato-Regione le quali, ancora, avrebbero dovuto disporre un generalizzato passaggio di uffici e personale dallo Stato alla Regione.

L’Alto Commissario per la Sicilia, allora ancora ‘Ministro’ per la Sicilia, aveva nominato i componenti siciliani di tale Commissione, e così pure fece il Governo dello Stato. La Commissione, presieduta dal Prof. Guarino Amella, vero e proprio Padre dello Statuto, lavorò in fretta e consegnò già nel 1947 i propri lavori, nonostante la sola eccezione delle disposizioni in materia valutaria, per le quali aveva incontrato un esplicito boicottaggio, già allora, al fine di non ritardare l’avvio dell’Autonomia.

Nel maggio del 1947 si era già convocata, secondo le norme provvisorie, la prima Assemblea Regionale Siciliana elettiva che non a caso si insediò nell’antico palazzo normanno dei Re di Sicilia, a simboleggiare la continuità storica delle istituzioni siciliane. Veniva eletto il primo Presidente della Regione, la cui attività effettivamente ebbe inizio l’1 giugno del1947. Aquel punto l’Alto Commissario per la Sicilia cessò dalle proprie funzioni. Ma da quel giorno stesso cominciarono gli abusi e la violazione di leggi costituzionali.

Intanto le norme provvisorie disponevano che il Presidente avrebbe dovuto prendere il posto dell’Alto Commissario come Capo dell’Amministrazione statale in Sicilia, ma così non fu.

Il Presidente della Regione restò esautorato e l’amministrazione statale restò saldamente sotto il controllo dei ministeri romani.

Il Capo provvisorio dello Stato, De Nicola, fieramente avversario dell’Autonomia siciliana, si rifiutò di firmare i decreti attuativi dello Statuto elaborati dalla Commissione Paritetica, tranne quelli che riguardavano il funzionamento degli organi regionali. In questo modo si diede sì attuazione allo Statuto, ma solo alla parte che riguardava l’istituzione di una rappresentanza politica regionale: i deputati regionali, il presidente, gli assessori, il commissario dello stato. Si creava così una casta ‘inutile’ di mediatori politici, priva di reali responsabilità e di reali poteri.

Lo Stato si rifiutò di passare anche un minimo di personale alla Regione, dotato di una qualche esperienza amministrativa. La Regione fu costretta, per sopravvivere, a reclutare personale di fortuna in maniera approssimativa, e sostanzialmente clientelare, creando una burocrazia parallela e, con le dovute eccezioni, meno qualificata di quella statale, anziché subentrare allo Stato nell’amministrazione esistente come sarebbe dovuto essere.

Alla fine del 1947, incalzata dall’Assemblea Regionale, l’Assemblea Costituente dovette acconsentire a contribuire alla formazione dell’Alta Corte per la Regione siciliana, senza la quale l’Autonomia non avrebbe neanche potuto realmente funzionare. Il Capo dello Stato firmò, probabilmente di malavoglia, i relativi decreti e l’Alta Corte poté insediarsi ai primi del 1948.

Sembrava quasi che l’Autonomia sarebbe potuta in qualche modo realmente avviarsi, con un po’ di buona volontà da entrambi le parti, ma già alcuni segnali sinistri non promettevano nulla di buono.

Si è già detto della legge costituzionale di ‘incorporazione’ dello Statuto nella Costituzione della Repubblica italiana che prevedeva modifiche unilaterali e semplificate dello stesso. L’Alta Corte, appena insediata, bocciò quella norma e sancì il fatto che l’ordinamento della Regione, ormai operante, era stato recepito dall’Assemblea così com’era e che non erano possibili altre forme di revisione della stessa se non quelle previste dalle procedure rafforzate disposte nella stessa Costituzione.

Quella sentenza, la n. 4 del 1948, sembrava essere la vittoria delle ragioni della Sicilia contro ogni atteggiamento dilatorio o comunque ostile. Ma quella sentenza segnò anche un definitivo fossato tra l’Italia e la Sicilia, giacché il Governo della prima, deciso a sbarazzarsi in qualsiasi modo dell’Autonomia concessa in un momento di difficoltà, maturò sin da allora il disegno di eliminare il giudice naturale, l’Alta Corte, preposto alla tutela dell’Autonomia siciliana e, con esso, ogni residuo di reale possibilità di attuazione dell’autonomia stessa.

Il disposto costituzionale ‘teoricamente’ vigente dell’Autonomia siciliana

A questo punto, però, è necessario richiamare brevemente quali siano i contenuti di questa Autonomia.

Alcuni, in genere pienamente attuati, sono più formali che sostanziali. La Regione si vede riconosciute, nonostante il nome formale di ‘Regione’, prerogative tipiche degli stati sovrani. Il nome è ‘Regione siciliana’ e non ‘Regione Sicilia’, come sarebbe se fosse ad autonomia ordinaria, per assonanza con il nome di entità sovrane quale la stessa ‘Repubblica italiana’. Il suo organo legislativo non è un Consiglio, ma un’Assemblea, e le norme che lo regolano lo assimilano del tutto ad un vero e proprio Parlamento. Il suo organo esecutivo è un vero e proprio Governo. la Sicilia ha una ‘Gazzetta Ufficiale’, e così via.

Al di là di questi riconoscimenti formali, le potenzialità sostanziali sono molteplici ed investono tutti i principali poteri.

Per quanto riguarda il potere legislativo, l’Assemblea Regionale Siciliana, si vide riconosciute amplissime potestà legislative esclusive, in cui unico obbligo da rispettare era quello di non violare la Costituzione, ed ampie potestà concorrenti, in genere riguardanti settori economici sensibili o diritti di cittadinanza, in cui oltre alla Costituzione la Regione deve osservare i principi fondamentali della legislazione statale. A fianco di queste potestà legislative la Regione può addirittura emettere leggi-voto, cioè semplici proposte di legge, poi discusse dal Parlamento italiano, su tutte le altre materie riservate alla competenza esclusiva statale, comprese – al limite – le leggi di ratifica dei trattati internazionali. Le potestà legislative esclusive della Regione riguardano, fra l’altro, l’agricoltura, l’industria, il commercio, l’istruzione primaria, l’ordinamento degli enti locali, la gestione e tutela del territorio, le miniere (e quindi anche quelle riguardanti le fonti di energia), le entità senza scopo di lucro, il turismo. Le potestà legislative concorrenti della Regione riguardano altresì settori importantissimi, quali le comunicazioni e i trasporti, la sanità, l’istruzione secondaria e universitaria, il credito, le assicurazioni, la finanza, le pubbliche utilità.

Per quanto riguarda il potere esecutivo esiste un legame strettissimo con il precedente. Su tutte le materie sulle quali la Regione ha potestà legislativa, e quindi quasi su tutto, l’Amministrazione è completamente e pienamente devoluta al Governo della Regione che ne risponde unicamente nei confronti dell’Assemblea. Per le funzioni residue statali (tranne, implicitamente la difesa e gli esteri) il Governo della Regione le svolge comunque, questa volta però come un Ministero della Repubblica e sotto le direttive del Governo nazionale. In tal senso il Presidente della Regione dovrebbe essere investito di una duplice funzione: all’interno della Sicilia ha le prerogative di Capo dell’esecutivo e di ‘piccolo’ Capo di stato (decide i ricorsi amministrativi straordinari in ultima istanza, promulga le leggi, svolge nell’isola le funzioni di norma di spettanza del Capo dello Stato), all’esterno della Sicilia è Ministro della Repubblica, guida l’amministrazione statale in Sicilia, rappresenta lo Stato nell’Isola, e l’Isola in Consiglio dei Ministri, con diritto di voto sulle materie che riguardano la Sicilia.

Per quanto riguarda il potere giudiziario la Sicilia non ha una ‘propria’ Magistratura, però la Magistratura italiana tiene nell’Isola tutti i gradi di giudizio, fino alla Cassazione. A questo si aggiunge la presenza di una Corte costituzionale speciale, la sopra detta Alta Corte, che giudica la costituzionalità delle legge approvate dall’Assemblea, i conflitti di competenza tra Stato e Regione e l’applicabilità alla Sicilia delle norme statali (ma non la loro complessiva costituzionalità, di spettanza della Corte Costituzionale), ed anche i reati commessi dai membri del Governo regionale nell’esercizio delle loro funzioni. Questa corte è composta di 7 membri più un Procuratore: 3 sono eletti dall’Assemblea siciliana, 3 dal Parlamento italiano; il Presidente, dai 6 giudici eletti, così come il Procuratore.

Dal punto di vista finanziario lo Statuto sancisce la riconquista della tradizionale autonomia tributaria della Sicilia. Se da un lato la Sicilia rinuncia a qualunque trasferimento da parte dello Stato, eccezion fatta per un ‘Fondo di Solidarietà Nazionale’ da destinare obbligatoriamente alle spese in conto capitale, per il resto essa costituisce una zona tributaria completamente autonoma. Allo Stato sono riservati tassativamente tre tributi, come compenso delle funzioni da questo ancora esercitate, peraltro poi delegate alla Regione, e quindi con obbligo di retrocedere alla Regione, anche in questi tre tributi, quanto necessario per lo svolgimento delle funzioni statali nell’Isola. Per il resto è l’Assemblea che deve deliberare i propri tributi, in piena libertà, e quindi in competenza esclusiva. Che la Sicilia fosse pensata come un vero sistema tributario a sé stante si evince anche dalla norma che privilegia il luogo di manifestazione del presupposto d’imposta e non quello del domicilio del contribuente, proprio come se essa fosse un vero e proprio stato a sé. È vero che dall’elenco delle materie legislative quella tributaria è stralciata e trattata a parte, ma la riserva allo Stato dei tre tributi e l’attribuzione degli altri alla competenza regionale non avrebbe alcuna possibilità di funzionamento se questa non venisse attribuita in maniera esclusiva alla Regione. Appena sarebbe il caso di ricordare, ancora, che tutto il demanio e il patrimonio statale dell’Isola passa alla Regione, con la sola eccezione di quello militare e di poco altro.

A questi elementi fondamentali dell’Autonomia se ne aggiungono altri, non meno importanti. L’organizzazione statale nell’Isola, fondata sui prefetti e sulle province, è smantellata ed affidata alla competenza organizzativa della Regione. Le autonomie locali si fondano quindi sui Comuni e sui liberi consorzi che questi vorranno istituire per sfruttare le necessarie sinergie. Le politiche nazionali dei trasporti saranno decise di comune accordo tra Italia e Sicilia. La Sicilia gestisce in autonomia, per mezzo di proprio istituto di emissione, le proprie riserve auree e valutarie. La Sicilia ha diritto, per i beni capitali destinati all’agricoltura ed all’industria agroalimentare, ad una generale esenzione doganale. Le entrate doganali, pur stabilite da norma nazionale, affluiscono alle casse regionali. La Sicilia può gestire prestiti interni alla pari di uno stato sovrano. La polizia di stato nell’isola dipende disciplinarmente dal solo Presidente della Regione il quale, in casi eccezionali, può addirittura richiedere e assumere il comando delle Forze Armate qualora questo servisse per ragioni di ordine pubblico.

Come si vede, quindi, dalla pur sommaria esposizione sin qui condotta, si tratta di una vera e propria sovranità, appena mitigata dall’unità politica esterna. Questa Autonomia non solo avrebbe riconciliato la Sicilia con l’Italia dei tanti torti subiti, ma le avrebbe consentito di decollare economicamente e socialmente, mentre invece è restata una colonia interna di sfruttamento, tutt’al più – adesso – mitigata da un regime assistenziale volto a drogare l’economia ed a mortificare ogni prospettiva di sviluppo.

Di tutto quanto abbiamo detto sopra, infatti, ad oggi non risulta applicato che una piccola, anzi minima, parte. Lo Stato italiano ha trovato il modo di legiferare calpestando le competenze esclusive e concorrenti dell’Assemblea, di non trasferire, se non per le spese, alcuna forma reale di governo dell’amministrazione, di dotare la Regione di un’autonomia finanziaria assai parziale, e comunque non rispondente al dettato dello Statuto.

La soppressione illegittima dell’Alta Corte per la Regione siciliana e l’azzeramento dell’Autonomia siciliana per mezzo della giurisprudenza costituzionale

Le due armi più insidiose che sono state utilizzate sono quelle dei ‘decreti attuativi’, giunti molti anni dopo, neanche su tutti i campi, in maniera frammentaria, i quali danno disposizioni difformi da quanto è previsto dallo Statuto, e quella delle sentenze costituzionali illegittime. Infatti lo Stato italiano, senza bisogno di alcuna modifica costituzionale, ha tolto ormai da più di 50 anni ai siciliani ogni tutela giurisdizionale dei propri diritti.

Il problema era, come abbiamo visto, proprio la presenza dell’Alta Corte, presso la quale molto spesso lo Stato perdeva le proprie cause durante gli anni in cui questa arrivò ad operare (1948-1956). Pure, al suo interno, vi furono contese assai aspre, al punto che in due punti la stessa Alta Corte dovette addivenire ad una giurisprudenza che limitava l’Autonomia siciliana in due punti vitali. Intanto, infatti, stabilì che le leggi dello Stato, ancorché sui campi di competenza esclusiva siciliana, si applicavano comunque al suo territorio, a meno che la Regione non avesse fatto ricorso per bloccarne tale efficacia, con il che si rallentò moltissimo l’avvio del reale autogoverno, bloccati come si era su un continuo confronto tra Stato e Regione. E poi smussò moltissimo l’autonomia finanziaria della Regione, facendo leva sul fatto che le disposizioni finanziarie che ne regolavano la vita, del 1948, erano soltanto provvisorie. Stabilì che la potestà della Regione sulla materia tributaria era appena concorrente, anzi meno che concorrente, non potendo derogare nemmeno dai principi generali dei singoli tributi e delle singole classi di esenzioni erariali. Stabilì che le leggi tributarie dello Stato avevano vigore in Sicilia. Così fu mortificata l’espressione solenne dell’art. 36 che stabiliva che la Regione provvedeva ai propri fabbisogni ‘con i tributi deliberati dalla medesima’. Su cosa mai avrebbe dovuto deliberare la Regione se non poteva bloccare l’efficacia dei tributi erariali in Sicilia? E tuttavia l’Alta Corte lasciò un piccolo spazio all’autonomia tributaria siciliana: questa poteva operare ‘piccole’ marginali modifiche alle leggi tributarie italiane quando lo richiedessero specifiche condizioni dell’Isola. Apertura questa modestissima e insignificante, ma che pure diede qualche respiro all’economia dell’Isola nel Dopoguerra. Ad evidenza questo, per lo Stato italiano, era ancora troppo. L’Alta Corte doveva chiudere.

Nel primo impeto dell’ottenimento dell’Autonomia, infatti, la Regione si era impossessata di fatto del gettito delle maggiori imposte dirette e indirette ‘riscosse’ nell’Isola. Vero è che lo Statuto diceva ‘maturate’ e quindi la Sicilia perdeva tutto il gettito delle filiali delle aziende italiane nell’Isola, ma era comunque tanto. Vero è che lo Stato continuava ad incassare molte imposte che non erano previste nelle tre riservate espressamente al suo gettito, ma per la Regione era comunque tanto. Vero è che queste principali imposte venivano manovrate dalla Regione soltanto in maniera millimetrica, ma per lo Stato questo era comunque tanto, anzi troppo.

Così, già nel 1953, quando con legge ordinaria venne istituita finalmente la legge costituzionale, si dispose in quella legge un articolato ambiguo, che da un lato sembrava tranquillizzare l’opinione pubblica siciliana sul mantenimento dell’Alta Corte, dall’altro preparava subdolamente il colpo di mano del 1957. Si stabiliva che le modalità di controllo delle leggi regionali siciliane restavano ferme e quindi tutti, leggendo questa legge, pensavano che nulla sarebbe cambiato, mentre poi avrebbero detto che la legge non si riferiva alla permanenza dell’Alta Corte ma solo alle norme procedurali di controllo delle leggi regionali. E, al contempo, si introduceva, sulle stesse materie di competenza speciale dell’Alta Corte, la possibilità del Governo di ricorrere alla Corte Costituzionale per conflitto di competenza con la Regione.

Orbene, quella legge era platealmente incostituzionale, poiché violava lo Statuto siciliano che era norma costituzionale sovraordinata alla stessa. Fu colpevole la disattenzione del Presidente della Regione di allora nel non impugnarla tempestivamente, in questa parte, presso l’Alta Corte, allora pienamente funzionante, che l’avrebbe certamente cassata perché introduceva sulla stessa materia una doppia competenza, peraltro in deroga a quanto espressamente previsto da norme di rango costituzionale. Passò relativamente inosservata.

Nel 1956 fu costituita finalmente la Corte Costituzionale e, per costituirla, lo Stato scelse alcuni giudici proprio dall’Alta Corte, facendole mancare la composizione e quindi impedendole di funzionare regolarmente. Ma la vicenda su cui l’Alta Corte fu definitivamente affossata fu quella tributaria. Il Presidente della Regione, nel 1957, spazientito dell’eccessivo protrarsi delle norme finanziarie provvisorie che regolavano la vita della Regione, tentò una forzatura legiferando liberamente in maniera tributaria come disposto dallo Statuto. A questo punto scattò la trappola da lungo tempo preparata: lo Stato, invece, di ricorrere all’Alta Corte, ricorse contro le leggi regionali direttamente alla Corte Costituzionale ai sensi della legge ‘incostituzionale’ del 1953 che, non impugnata nei tempi, era ora inoppugnabile, peraltro perché nel frattempo di fatto l’Alta Corte non c’era più.

La Corte Costituzionale, al cui interno troviamo lo stesso De Nicola che tanto aveva avversato l’Autonomia siciliana nel 1946, non solo diede ragione allo Stato in quella sentenza, non sconfessando espressamente la giurisprudenza dell’Alta Corte, ma ridimensionandola sino praticamente ad azzerare l’autonomia tributaria della Regione. Essa, anche, colse l’occasione di essere stata interpellata per dichiarare ‘travolta’ la competenza dell’Alta Corte ed assorbita da se stessa. Tale sentenza è giuridicamente aberrante per almeno tre motivi.

In primo luogo perché fondata sul principio fondamentale di unicità di giurisprudenza costituzionale che, sensato se inteso nel senso che sulla stessa materia non possono esserci due giudici naturali, ma uno solo, non può essere inteso nel senso che, su materie speciali, non possano, dalla Costituzione che è sovrana, essere posti giudici speciali. Tale principio, nel senso ampio ora indicato, non è espresso in alcun passo nella Costituzione, mentre è espressa, sia pure per rinvio dell’art. 116, la competenza speciale dell’Alta Corte. La competenza di un giudice non può costituirsi sulla base della propria stessa giurisprudenza, specie quando la Costituzione stabilisce espressamente che le competenze giurisdizionali sono costituite per legge e la legge costituzionale, in quel momento, diceva cosa diversa.

In secondo luogo perché la ‘doppia competenza’ allora invocata come sorta di ‘pasticcio insolubile’ non era creata dall’originario combinato disposto delle norme costituzionali, le quali – come pacificamente riconosciuto dalla pregressa giurisprudenza costituzionale dell’Alta Corte – ordinatamente affidavano all’Alta Corte le competenze sopra indicate sottraendole alla Corte Costituzionale. Essa era invece creata da una legge, incostituzionale, del 1953, la quale, pur essendo soltanto una legge ordinaria, aveva contraddetto le norme sovraordinate e introdotto, di proposito, il suddetto elemento di confusione, affinché poi potesse servire per invocare la ‘fusione’ delle due corti.

In terzo luogo perché la sentenza, dovendo riconoscere la legittimità della giurisprudenza dell’Alta Corte sino al 1956, la giustificò come una norma ‘preesistente’ alla Costituzione, e quindi transitoriamente applicabile. Lo Statuto, infatti, nella sua versione originaria, era del 1946, mentre la Costituzione era del 1947. Trascurava la Corte che poi – come abbiamo visto – la stessa Assemblea Costituente aveva ratificato alla lettera, nel 1948, e quindi ‘successivamente’ e non ‘precedentemente’, il contenuto dello Statuto del 1946. Per salvarsi da questa debolezza, certamente manifesta, della loro interpretazione, obiettarono che quel recepimento non era pienamente efficace, perché avrebbe necessitato di un non meglio precisato ‘coordinamento’ con la Costituzione che, a loro dire, non ci sarebbe stato in modo sufficiente. E tra le norme da disapplicare, giusto caso, ci sarebbero state proprio quelle che disponevano la competenza speciale dell’Alta Corte.

E tuttavia questa interpretazione aberrante, peraltro dissonante dalla citata sentenza n. 4 del 1948 che richiedeva espresse modifiche costituzionali per modificare lo Statuto, intanto ad evidenza recepito senza bisogno di alcuna modifica o coordinamento, non era intanto efficace poiché su questo campo era competente, ancorché temporaneamente inoperante, l’Alta Corte.

La Sicilia chiese e ottenne la convocazione in seduta comune del Parlamento per il rinnovo dell’Alta Corte, in attesa che un’eventuale legge costituzionale ne disponesse il coordinamento con la Corte Costituzionale o anche, eventualmente, la sopprimesse. Il giorno prima della seduta del Parlamento, già regolarmente convocato, il Presidente della Repubblica, sollecitato a titolo personale non dalla Corte Costituzionale, ma da alcuni suoi componenti, in tal senso, invia un comunicato al Presidente della Camera, invitandolo a rinviare tale nomina in attesa di una migliore definizione giuridica e politica della questione.

E tale rinvio dura dal 1957. La questione non è stata mai più risolta. Semplicemente, dopo pochi mesi, lo Stato invitò il Commissario dello Stato presso la Regione siciliana di non inviare più alcun ricorso all’Alta Corte, e lo stesso diffidò nei confronti della Regione. Le proposte di legge costituzionale non furono più discusse, le proteste siciliane semplicemente ignorate. La questione, per lo Stato italiano, ad oggi è chiusa, in totale dispregio delle norme costituzionali che nel frattempo non sono state mai emendate.

E questa soppressione è stato lo strumento attraverso il quale lo Statuto è stato a poco a poco azzerato in via giurisprudenziale da un giudice formalmente incompetente.

Il Presidente della Regione non può promulgare le leggi in pendenza di giudizio, anche se nello Statuto è scritto diversamente, se non rispondendone patrimonialmente in prima persona. Qualunque legge regionale è così soggetta alla censura preventiva del Commissario dello Stato, il quale sa che, una volta impugnata, automaticamente sarà cassata dalla Corte Costituzionale. Di fatto i Presidenti della Regione promulgano soltanto le parti non impugnate e così l’autonomia legislativa è azzerata. Anche l’autonomia giudiziaria ha interrotto il proprio corso. Negli anni ’40 si era arrivati ad istituire, nel primo impeto dell’autonomia, una Corte dei Conti siciliana e un supremo tribunale amministrativo, il Consiglio di Giustizia amministrativa. E questi sopravvivono tutt’oggi. La Corte di Cassazione, invece, cadde nel dimenticatoio.

Anche l’autonomia amministrativa, giunse tardi, poco e male, secondo i disegni e i capricci del Governo nazionale, in totale difformità da quanto previsto dallo Statuto. Tre soli esempi illuminanti. Le ‘acque territoriali’ ricadono nelle competenze amministrative regionali, che hanno tutti gli oneri relativi al controllo della pesca ed incombenze varie, ma le risorse energetiche che sono trovate nelle stesse ricadono nelle piene competenze statali, che ne incassano integralmente tributi e royalties. Tutto il demanio statale che conta nell’Isola (autostrade, elettrodotti, etc.) è restato saldamente in mano statale, delegando qualche pezzo inutile di spiaggia o qualche vecchia e malandata strada statale dell’interno alla Regione. Alla Regione sono state delegate le competenze sull’edilizia scolastica, sul diritto allo studio, etc. ma i programmi ministeriali, con i quali si forgiano i nuovi cittadini, sono stati trattenuti saldamente a Roma.

L’azzeramento dell’Autonomia per mezzo dell’integrazione europea

 

Altro strumento con il quale l’Autonomia siciliana è stata progressivamente ridimensionata sino all’azzeramento è stato quello dell’integrazione europea. Lo status istituzionale economico e finanziario assolutamente eccezionale della Sicilia avrebbero richiesto, infatti, sin dall’inizio della stessa la richiesta di un inserimento di protocolli speciali in cui venissero fatti salvi gli accordi pregressi che lo Stato italiano aveva contratto con la Regione. In realtà, invece, tali peculiarità sono state semplicemente ignorate, considerandole nient’altro che una particolarità dell’ordinamento interno italiano.

Se ciò non rappresentava una peculiarità particolarmente grave per quel che riguarda i trattati più lontani nel tempo dal Trattato CECA del 1951 sino all’Atto Unico Europeo del 1987, queste limitazioni si sono fatte via via più severe da quando è stata istituita l’Unione Europea, con Maastricht (1992) e i successivi trattati sino all’attuale Trattato di Lisbona o, addirittura, il MES in corso di ratifica.

Incidendo sugli spazi costituzionali garantiti alla Sicilia, l’Italia avrebbe dovuto quanto meno sottoporre le implicite modificazioni costituzionali al parere preventivo dell’Assemblea, ciò che sistematicamente non è stato mai fatto.

La riforma costituzionale del 2001, della quale si dirà più avanti, imporrebbe allo Stato italiano di consultare le regioni quando il rappresentante italiano va in Consiglio dei Ministri europeo a deliberare atti che incidono sulle loro sfere di competenze. Questo principio, applicato alla Sicilia, avrebbe significato che le posizioni italiane in Europa dovrebbero essere sistematicamente coordinate con il governo siciliano. Non si è mai fatto niente del genere. Le competenze attribuite alla Regione dallo Statuto sono passate una ad una da Palermo a Bruxelles e, quando si delibera su queste materie, non solo lo Stato italiano non tiene in alcun conto le esigenze della Sicilia, ma spesso il suo voto è quello determinante per andare contro agli interessi economici strutturali della Sicilia.

Il caso più eclatante è quello dell’autonomia tributaria riconosciuta alla Sicilia dall’art. 36 dello Statuto. Quando la Sicilia ha tentato di esercitarla nei limiti angustissimi in cui la giurisprudenza abrogativa della Corte Costituzionale aveva lasciato qualche spiraglio aperto, in genere è stato il commissario italiano o il ministro italiano in Europa a sollevare il problema che questa fiscalità di vantaggio avrebbe costituito un ‘aiuto di stato’ incompatibile con i trattati europei.

Ad evidenza, però, non si tratta affatto di aiuto di stato. A parte il fatto che anche questi sarebbero tollerati, come lo sono altrove, per regioni periferiche e a ritardato sviluppo quale strutturalmente è la Sicilia, in questo caso la Sicilia ha una potestà tributaria originaria, al pari di quella degli stati sovrani, i quali la esercitano facendosi carico al contempo di ogni spesa pubblica. Essendo di fatto la Sicilia uno stato confederato all’Italia che si fa carico quasi di ogni spesa pubblica in Sicilia, ogni defiscalizzazione non potrebbe avere effetto diverso da quella che avrebbe da manovre tributarie esercitate dagli stati membri. Se l’Eire, poniamo, decide di porre determinate aliquote di imposte sui redditi o sull’IVA, come può essere distorto il mercato nel passare da questo territorio al resto dell’Unione in maniera diversa da una analoga manovra della Regione siciliana che, sul punto, è completamente sovrana alla pari di uno stato membro? Diverso sarebbe se lo Stato italiano, con propria legge, agevolasse imprese e famiglie residenti in Sicilia. Ma – con la struttura istituzionale che abbiamo presentato – le cose stanno in maniera completamente diversa.

La Sicilia ha dunque il diritto di negoziare e ratificare, con propria decisione autonoma, tutte le cessioni di sovranità che l’Italia ha disposto al posto suo senza averla dapprima consultata. Come sono previsti accordi e protocolli speciali per le Faer Oer, la Groenlandia, l’Isola di Man, le Isole del Canale, Gibilterra, così pure deve esser fatto per l’Autonomia siciliana che non è meno speciale o antica di quelle citate. E in questo negoziato deve essere proprio l’Italia a richiedere espressamente la ratifica di tali accordi all’interno del diritto europeo.

Gli accordi finanziari ‘distorti’ del 1965 e successive vicende dell’Autonomia finanziaria siciliana: il modello di sviluppo assistenziale

 

Dopo lunghissimo accordo provvisorio, i decreti ‘attuativi’ delle disposizioni finanziarie arrivarono finalmente nel 1965. Ma quegli accordi rappresentarono la più grave delle distorsioni rispetto al dettato originario.

Per un verso, infatti, essi resero definitivi gli accordi provvisori del 1948, attribuendo alla Regione il gettito delle principali imposte dirette e indirette, secondo un elenco allegato al decreto stesso. Per altro resero puramente teorica l’autonomia tributaria della Regione stessa.

L’impianto dello Statuto determina alcune imposte a favore dello Stato e, per il resto, affida tutto alla ‘delibera’ della Regione. Il decreto del 1965, invece, determina – al contrario – quali imposte spettano alla Sicilia, in modo che, non solo ‘tutte le altre’ restano allo Stato, ma che, man mano che lo Stato crea nuove imposte e sopprime quelle vecchie, con questa strategia può togliere a poco a poco quel gettito che aveva garantito alla Regione nel Dopoguerra e portare tutto nelle mani dello Stato.

Poi la Regione, anche di quelle imposte, si vede attribuire il gettito ma non la capacità di manovra. In questo modo la classe politica si vedeva attribuire un plafond di risorse da spendere, senza però essere responsabilizzata sull’entrata. Quest’autonomia zoppa, solo sul lato della spesa, era evidentemente preordinata ad un modello assistenziale in cui la Regione distribuiva fondi a clientele elettorali e non si occupava minimamente dello sviluppo.

A questo si aggiunge il fatto che, con il decreto del 1965, lo Stato può semplicemente affermare che un nuovo tributo erariale serve per un’esigenza speciale e attirarlo alla propria competenza; ciò che poi è stato fatto sistematicamente, anche adducendo generiche necessità di bilancio dello Stato italiano.

La riforma tributaria del 1972/73 che introdusse in Italia l’Imposta sul Valore Aggiunto e l’imposizione progressiva sul reddito, non portò – come si sarebbe dovuto – ad una revisione degli accordi del 1965. Semplicemente lo Stato, in modo unilaterale, attribuì alla Regione alcuni tributi che ritenne dovessero sostituire quelli soppressi nel 1965.

Dell’attribuzione del gettito, per imposte indirette e dirette, maturate in Sicilia ma riscosse altrove, alla Regione, nonostante l’esplicita previsione nello stesso decreto del 1965, non ce n’è mai stata alcuna traccia.

Vi è da dire che la comunità politica siciliana, in cambio di questa svendita dei diritti della Sicilia, ottenne negli stessi anni grandi privilegi. Valga per tutti l’assimilazione della retribuzione dei Deputati regionali a quella dei Senatori della Repubblica, che data proprio dallo stesso 1965 e che non è, al contrario, riscontrabile in alcuna parte dello Statuto.

Le perequazioni infrastrutturali e la vanificazione del Fondo di Solidarietà Nazionale

 

Anche la parte relativa alle spese in conto capitale dello Statuto è stata completamente disattesa. L’art. 38 determina in maniera esplicita e chiara il Fondo di Solidarietà Nazionale che l’Italia deve alla Sicilia per le spese infrastrutturali.

Non si è potuta avere alcuna somma a tale titolo prima dei primi anni ’50. Quando questo fondo arrivò fu determinato in maniera forfetaria, e non in linea con quanto stabilito dallo Statuto, e tuttavia si trattava – allora – di risorse che consentivano alla Sicilia di superare l’arretratezza, a tratti medievale, delle sue strutture. Nei primi anni ’60 finalmente la materia è regolamentata. L’Italia non dà nulla in realtà alla Sicilia per il Fondo in parola, ma attribuisce alla Regione l’85 % delle imposte di produzione riscosse in Sicilia a tale titolo. In pratica, se è vero che quelle imposte, particolarmente ingenti dopo l’industrializzazione della Sicilia con raffinerie e impianti produttivi di energia, erano tra quelle tre che spettavano all’erario, è anche vero che erano comunque riscosse in Sicilia e che, con quelle, in teoria la Regione avrebbe dovuto svolgere le funzioni delegate dallo Stato.

E tuttavia, bene o male, fino al 1990, questo fondo garantì un qualche sviluppo delle infrastrutture in Sicilia. Dal 1990 al 2000, adducendo generiche difficoltà di bilancio, il fondo è stato azzerato, salvo la dazione di un forfait insignificante a saldo nei primi anni ’00.  Dal 2001 ad oggi il Fondo di Solidarietà Nazionale è stato sì ripristinato, ma con una somma del tutto irrisoria (circa 200 milioni di euro, assolutamente insufficienti a recuperare il gap infrastrutturale tra Sicilia e Penisola), giusto per dire che si assolve all’obbligo costituzionale, mentre in realtà le modalità di calcolo dello stesso sono del tutto ignorate.

Riforma ‘federalista’ dello Stato italiano nel 2001

Rispetto al quadro istituzionale generale uscito dalla Guerra Mondiale e dalla Resistenza contro il nazifascismo, l’Italia ha conosciuto una importante riforma costituzionale nel 2001. Da questa è derivata poi una legge ordinaria, sul federalismo fiscale, che in parte esplica i propri effetti anche in Sicilia.

La riforma del2001 haintrodotto competenze legislative esclusive anche per le regioni a statuto ordinario e, complessivamente, si sono ridotte le differenze tra queste e le cinque regioni a statuto speciale. Gli statuti speciali, tuttavia, sono stati fatti salvi nella loro formulazione originaria.

La riforma introduce nuove competenze legislative esclusive e concorrenti a tutte le regioni, e quindi anche alla Sicilia, ma non dovrebbe togliere quelle originariamente garantite. Siccome poi le competenze amministrative e regolamentari sono delegate alle Regioni in funzioni dei campi legislativi di intervento, il combinato disposto di questa riforma con lo Statuto originario siciliano, ha addirittura ampliato tanto l’Autonomia della Sicilia quanto il carico finanziario che questa dovrebbe sopportare.

La Sicilia adesso, a parte esteri e difesa, dovrebbe provvedere a se stessa come un paese sovrano ma in cambio dovrebbe vedersi attribuita la gestione e il gettito di quasi tutti i tributi relativi al suo territorio.

E tuttavia, mentre per le altre regioni a statuto speciale e per le regioni a statuto ordinario le norme di attuazione della riforma federalista dello Stato sono definite, per la Sicilia la Commissione Paritetica – incaricata di revisionare gli accordi del 1965 – è in totale fase di stallo. Lo Stato non vuole riconoscere, ancora una volta, l’attuazione del disposto dello Statuto.

Il 31 gennaio u.s., sotto l’onda di proteste che si sono diffuse in tutta l’Isola e che l’hanno paralizzata per una settimana, lo Stato ha costituito un tavolo tecnico per l’attuazione del federalismo fiscale nell’Isola. Sono bastati però pochi incontri tra Stato e Regione per capire che la posizione dello Stato, ancora una volta, tiene in nessun conto il disposto dello Statuto che è parte integrante della Costituzione e ragiona solo in termini di saldi finanziari da presentare in Europa come se la Sicilia non avesse alcun diritto.

Per quanto riguarda l’Europa, infine, l’Italia ha firmato recentemente ancora una volta un trattato in cui rinuncia volontariamente alla propria sovranità tributaria, dimenticando che la Sicilia ha una propria sovranità tributaria, per la quale ha fatto cento rivoluzioni, a partire dal Vespro, e che non può rinunciarvi in suo nome senza sapere cosa ne pensano i Siciliani per mezzo delle loro istituzioni.

Conclusioni

Per tutto quanto precede si segnala a Codesta Organizzazione internazionale che la Sicilia, dotata da secoli di una propria identità geopolitica, di proprie istituzioni autonome, con particolare riferimento all’ordinamento tributario, riconosciute dall’Italia di cui è parte integrante nella propria carta costituzionale, è privata sostanzialmente dei propri diritti costituzionali.

Si segnala che l’Italia non rispetta il patto unitario che ha contratto con la rappresentanza del Popolo siciliano nel 1946, né la propria stessa legge costituzionale del 1948 che recepisce integralmente quell’accordo.

Si segnala, infine, che attraverso un uso coordinato di leggi, decreti e sentenze l’Italia ha tolto alla Sicilia ogni possibilità di tutela giurisdizionale dei propri diritti all’interno dell’ordinamento italiano e che quindi, prima o poi, la Questione Siciliana dovrà essere posta all’attenzione della comunità internazionale.

Firmato

Il Promotore

Comitato La Sicilia e i Siciliani per lo Statuto

(fonte. dossiersicilia.wordpress.com)

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