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La Sicilia, la terra dove siamo nati e dove sono ancorate le nostre radici, è una terra meravigliosa perché ricca di cultura, di bellezze naturalistiche, paesaggistiche ed artistiche, spesso sconosciute da noi stessi siciliani.. Musei e parchi archeologici sono visitati più che altro dagli stranieri.

Un lavoro di recupero della memoria storica potrà servire a tutti, per sentire il fascino profondo, autentico che viene da lontano.
In Italia, accanto alla lingua ufficiale italiana, esistono lingue secondarie e diversi dialetti, aventi un’estensione geografica ma soprattutto culturale, coincidente con la regione d’appartenenza.

Le origini della lingua siciliana si perdono nella notte dei tempi. I Siciliani, nel corso dei secoli hanno saputo acquisire dai Greci, Arabi, Latini. Romani, Francesi ed altri ancora, che hanno colonizzato la Sicilia, il meglio della loro cultura e lingua, una serie di conoscenze che si sono stratificate nel tempo formando la nostra civiltà.

Così, di volta in volta, la parlata locale, la nostra lingua, si arricchì di nuovi vocaboli, proverbi e frasi idiomatiche, un insieme di conoscenze, che si uguagliavano al nostro temperamento, rendendo le nostre espressioni popolari più piene di vita.
Per oltre due secoli la nostra lingua fu lingua nazionale e, durante il regno di Federico II di Svevia si diffuse in Calabria, in Puglia, nel Cilento e nel Salento, dove ancora viene parlata.

Con la recente globalizzazione, certi popoli, con una lingua di poco valore, ma più evoluti economicamente, Inghilterra e Stati Uniti) hanno esercitato molta influenza su altri popoli (come l’Italia), spesso più ricchi di cultura, apportando nuovi vocaboli, volgari e banali.
La lingua italiana ha seguito un po’ la decadenza morale e politica di questi ultimi anni ed è andata in forte declino: nello scritto sono stati inseriti anche vocaboli inglesi ed altri usati nella nostra lingua parlata.

Il dialetto, avendo le radici antiche e ricche di storia, è stato più resistente alle infiltrazioni straniere e i nuovi vocaboli e modi di dire vengono prima modificati e adattati alla vecchia cultura.
Oggi nella lingua siciliana molti vocaboli arcaici e frasi idiomatiche sono andati in disuso. Ma se da una parte è inevitabile seguire il progresso per non rimanere indietro e camminare di pari passo con la società nella quale viviamo, dall’altra bisogna rendersi conto che non si devono dimenticare le proprie origini, la propria storia, che rappresentano l’identità, la civiltà di un popolo.

La creazione della Regione Siciliana a Statuto speciale, è stata un fallimento per la nostra cultura; nei primi anni nei libri di testo delle scuole elementari si analizzava esclusivamente la Sicilia, la sua cultura, storia e tradizione; quindi tutto si è messo a tacere. Inoltre, l’economia non è migliorata e culturalmente abbiamo perso le nostre tradizioni a favore di quelle importate dal Nord.
Oggi noi siciliani, con la sola preparazione scolastica, non conosciamo la nostra storia, la nostra lingua, i nostri costumi e la nostre tradizioni. In compenso conosciamo la lingua inglese e la storia dei Savoia considerati dai libri di testo come degli eroi, ma che hanno fatto tanto male alla Sicilia.
Se non verrà insegnata nelle scuole, la nostra lingua corre il rischio, di essere dimenticata con il passar del tempo, e quindi di estinguersi. Ormai quando si parla in pubblico, ma anche in seno di molte famiglie, si parla in lingua italiana.

Oggi non è facile scrivere in lingua siciliana perché non abbiamo un vocabolario ed una grammatica che abbiano il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Siciliana, come è avvenuto per la Sardegna. Le uniche grammatiche affidabili restano quelle del Pitrè, di Santi Correnti e i vocabolari del Mortillaro, e del Traina.
Per mezzo della mia lunga esperienza, io riesco a scrivere e a leggere il siciliano con disinvoltura. I miei 220 racconti scritti in lingua siciliana ne sono la conferma.

Nel 1946 frequentando la I classe elementare, ricordo che anche l’insegnante parlava in siciliano per meglio farsi capire, visto che l’italiano per noi era una lingua straniera; quando ci spiegava l’uso della è, voce del verbo essere, diceva che corrispondeva alla “est” del siciliano parlato.
Il 7 aprile 2011 l’On. Nicola D’agostino ha presentato una proposta di legge per inserire nelle scuole siciliane dell’obbligo, l’insegnamento di lingua, storia e letteratura siciliana.

L’Assemblea Siciliana, ha approvato la Legge regionale n. 9 del 31 maggio 2011 che si compone di quattro articoli relativi alla promozione, valorizzazione ed insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano, nelle scuole di ogni ordine e grado. Ma questo naturalmente non basta. La lingua siciliana ha delle diversità fra una provincia; per cui bisogna stabilire una lingua che comprenda i vocaboli e la grammatica comuni in tutta la Sicilia. Quindi occorrono dei corsi di preparazione per gli insegnanti, in quanto sono pochi quelli in grado di poter adempiere a detto compito
Nonostante l’Unesco, l’U.E. e altre organizzazioni internazionali la riconoscano come lingua, non gode di nessuna forma di tutela né da parte della Regione Siciliana né dallo Stato Italiano. Il siciliano è ritenuta lingua regionale ai sensi della Carta europea per le lingue regionali e minoritarie, che all’Art. 1 afferma: “lingue regionali o minoritarie si intendono le lingue che non sono dialetti della lingua ufficiale dello stato”. La “Carta Europea delle Lingue Regionali o minoritarie” è stata approvata il 25 giugno 1992 ed è entrata in vigore il I marzo 1998. L’Italia ha firmato tale Carta il 27 giugno 2000 ma non l’ha ancora ratificata

L’Unesco, un Organismo fondato il 16/11/1945, nell’ambito delle Nazioni Unite, nella “Convenzione per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale” emanata il 17/10/2003, ha riconosciuto le “Eredità Immateriali” come un patrimonio inestimabile legato alla tradizione.
Così, presso l’Assessorato dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Siciliana si è istituito il Registro delle Eredità Immateriali di Sicilia (REI), che rappresenta uno strumento per la rivalutazione della nostra cultura e per lo sviluppo economico della Sicilia. Fanno parte di questo patrimonio: il linguaggio, il teatro, i canti popolari, le feste paesane, certi lavori artigianali, il teatro dei “pupi”.

Il ricco patrimonio culturale contenuto nel dialetto, come vocaboli, frasi idiomatiche, proverbi, gabbi, racconti, tutta un’intera letteratura, non si può buttare nel dimenticatoio. In molti casi, alcune delle tradizioni più antiche trasmesse oralmente da padre in figlio, sono ancora patrimonio di pochi anziani dell’isola, preziosi detentori di un sapere che solo loro possono tramandare.

Il siciliano è una lingua a tutti gli effetti. Essa proviene dalla “Scuola Siciliana”, che sotto Federico II di Svevia ha raggiunto il massimo splendore, con poeti e scrittori che hanno lasciato molte opere in lingua siciliana. Hanno operato in questa scuola personalità poetiche come lo stesso Federico II e i figli Enzo e Manfredi; inoltre: Guido e Oddo delle Colonne, Pier delle Vigne, Rinaldo D’Aquino e Giacomino Pugliese. Il sonetto, come composizione poetica, e l’elevazione dell’amore ad elemento spirituale, che sarà il tema fondamentale della poesia stilnovista, sono stati concepiti da Iacopo da Lentini, notaio della corte palermitana. Questo lo ha affermato anche il sommo Dante nel “De vulgari eloquentia” e Petrarca, nell’introduzione delle “Epistulae familiares e nel IV capitolo del “Trionfo d’amore”.

Nel periodo angioino ed aragonese si è scritto in siciliano, con un linguaggio che ha molto in comune con la futura lingua italiana. Quando è scomparso il regno dei normanni e si è smembrata la “Scuola Siciliana”, molti di questi letterati, hanno partecipato alla formazione del “Dolce Stil Nuovo” e della lingua italiana. Sulla lingua siciliana Giorgio Santangelo, noto letterato castelvetranese, afferma: “Agli albori del nostro primo Rinascimento la Sicilia forgiò una lingua che fu la prima voce dell’unità culturale italiana”.

Luigi Capuana, nella prefazione a “Centona” di Martoglio, nel 1906 così ha scritto “…Discordo dalla sua opinione che il dialetto siciliano sia insofferente di regole grammaticali e ortografiche. Mi sembra che ne abbia quanto ogni altro e quanto certe lingue. Solamente l’ortografia di esso è ancora incerta, non ostante i molti sforzi fatti per renderla stabile.”
Anche Vincenzo Consolo, noto scrittore siciliano, in un’intervista curata da Marino Sinibaldi, in difesa della lingua siciliana ha dichiarato:

Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia

Dal punto di vista economico la Sicilia è rimasta sottosviluppata, perché è stata succube del feudalesimo che, malgrado sia stato dichiarato ufficialmente decaduto nel 1812, il suo sistema è continuato fino ai nostri giorni. Ancora oggi qualcuno concepisce il datore di lavoro come il padrone che concede, per cui il lavoratore deve essere obbligato e ringraziarlo quando lo fa lavorare.
Il feudalesimo esisteva già durante il regno dei Normanni con i baroni ed il latifondo. Le città venivano amministrate da funzionari regi. Nello stesso periodo nel Nord Italia esisteva l’età comunale con una maggiore democrazia.
Nel luglio 1943 i contadini siciliani erano ancora vittime del feudalesimo; Vincenzo Consolo in “Pietre di Pantalica” così li descrive durante lo sbarco degli alleati del luglio 1943:

…pastori e contadini. Immobili, logori come la terra su cui stavano, piegati con le zappe a rompere la crosta, sembrano indifferenti alle colonne (di carri armati), alle truppe che passavano sulle trazzere bordate d’agave e di rovi, indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano; spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che in quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara e avversaria, contro quel cielo impossibile e beffardo.

Così, la Sicilia antica continuava a sopravvivere in un mondo moderno già cambiato.
Dal 1950 in poi, subentra un periodo intermedio in cui il lavoratore si accorge che anche lui è artefice dell’ingranaggio produttivo e reclama i suoi diritti. Quindi, dalla concezione che il barone gli faceva un grande favore facendolo lavorare nei suoi possedimenti passa alla consapevolezza che il barone lo sfrutta, fa i suoi comodi e si arricchisce alle sue spalle. In questo periodo transitorio il barone si impoverisce, ma il lavoratore, ancora non toccato dal benessere è dominato e terrorizzato dalla povertà.

I Siciliani hanno sempre sognato di essere il centro di un regno. Questo sogno lo hanno ottenuto con i Normanni. A quei tempi la Sicilia era un regno ricchissimo con capitale Palermo, una città fra le più civili e splendide del mondo allora conosciuto.

La mafia e le cattive amministrazioni sono stati altri gravi elementi negativi per lo sviluppo dell’economia siciliana, provocando un’arretratezza economica, ma anche culturale rispetto al resto dell’Italia. Se il potere giudiziario non è stato di grande aiuto per lo sviluppo dell’isola, Falcone e Borsellino, vittime della mafia, rappresentano due figure insostituibili nella storia della giustizia siciliana, perché per la prima volta nella storia, merito del Max processo, da loro ideato e diretto, sono stati condannati molti esponenti di spicco della mafia.
VITO MARINO

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