Il 18 e 19 luglio 2009 a Palermo c’è stata una parte d’Italia che per la prima volta non ha “commemorato” la strage di via D’Amelio assistendo passivamente alle consuete passerelle delle autorità che, come dice Salvatore Borsellino, da troppi anni ritornano a Palermo per accertarsi che suo fratello Paolo sia ancora morto. Per commemorare appieno occorre invece che venga fatta giustizia e la giustizia non può essere disgiunta dalla verità.
Sulla strage di Via D’Amelio ci sono delle domande precise alle quali i magistrati lavorano da tempo per dare una risposta, attraverso le indagini sulla trattativa tra mafia e Stato, che la maggior parte dei media asserviti al potere ha pateticamente attribuito ad una mera opinione di Totò Riina. Un Totò Riina che furbescamente ha pensato bene di usare i giornali come un enorme pizzino per lanciare messaggi agli altri boss e alle istituzioni, direttamente dal suo 41 bis.
Il 18 e il 19 luglio c’erano pochi Palermitani? Pochi Siciliani? Sicuramente sì e questa purtroppo non è una grossa novità. La vera novità, alla quale i media ufficiali non hanno dato risalto, è che in quei due giorni, anche se non erano in 30mila, hanno partecipato centinaia di persone da tutta l’Italia. Persone che hanno pagato il biglietto e il soggiorno di tasca propria e al posto di andare al mare si sono fatti 5 chilometri a piedi su per il monte Pellegrino fino a Castel Utveggio e quasi altrettanti il giorno dopo in corteo per le vie di Palermo. Qualcosa di diverso dai viaggi a Roma in autobus a spese dei partiti o dei sindacati, pieni di ragazzini che si fanno la gitarella gratis, senza nemmeno conoscere i motivi delle trasferte.
Qualcuno si è chiesto quante persone fossero presenti a Palermo, davanti alla caserma Lungaro, insieme alle poche autorità locali a deporre le corone di fiori? No, tutti erano concentrati a fare la conta delle presenze in via d’Amelio, pronti a dire che c’erano quattro gatti. Ma mentre alla caserma Lungaro si commemorava, in Via D’Amelio si manifestava, si chiedeva giustizia, si pretendeva di sapere la verità sulla trattativa. Dal 2003, con la sentenza Borsellino bis, è noto che la strage non è solo responsabilità di Cosa Nostra e oggi c’è una parte d’Italia che pretende di sapere i nomi e chiede chi abbia fatto sparire l’agenda rossa del giudice, sostenendo magistrati come Sergio Lari, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Non è un’Italia che si indigna a caldo solo dopo la vista del sangue, ma un’Italia che si informa, che segue le sentenze e che fa rete da varie regioni. Certo, era facile essere tutti uniti, indistintamente, di fronte ad una strage di mafia che colpisce un uomo di Stato, diventa un po’ più difficile continuare ad esserlo durante la ricerca dei mandanti occulti, intimamente legati alla politica. Lì bisogna decidere da che parte stare e non è più valido il vecchio generico assioma “tutti uniti contro la mafia”.
Mai come adesso la verità divide. Non potrebbe essere altrimenti dato che, dopo diciassette anni, cominciano ad apparire i contorni di una strage di Stato che fa tremare i polsi a certi potenti.
E allora sul palco di Via D’amelio e al dibattito sui mandanti impuniti, nell’atrio della facoltà di giurisprudenza, oltre a Salvatore Borsellino, Gioacchino Genchi, quelli di Addiopizzo e normali cittadini provenienti da tutta Italia, c’era anche una parte della politica che vuole fare luce sulla strage, c’era Sonia Alfano, Luigi De Magistris, Francesco Barbato, ma anche Rita Borsellino, Beppe Lumia e Rosario Crocetta, con buona pace di chi ha bollato la manifestazione come un comizio di Idv, chiuso pure al Pd.
Certo, mancavano rappresentanti dell’Udc o del Pdl che avrebbero potuto partecipare, se solo avessero avuto la necessaria autonomia per prendere le distanze dalle leggi del governo Berlusconi che hanno permesso a Corrado Carnevale, il “giudice ammazzasentenze” della mafia, condannato in appello ma assolto in cassazione dai suoi compagni di stanza, di poter concorrere alla carica di primo presidente della corte di cassazione. Per carità nessuna rilevanza penale, però “io i morti li rispetto ma certi morti no” non è bello da dire al telefono, soprattutto se ci si riferisce a dei martiri dell’antimafia come Falcone e Borsellino, definiti da Carnevale “due incapaci con un livello di professionalità prossimo allo zero”.
Per i politici dell’Udc o del Pdl sarebbe stato quantomeno imbarazzante dire la propria senza prima prendere le distanze anche da personaggi ingombranti come Totò Cuffaro e Marcello dell’Utri. Curioso anche come, tranne poche eccezioni, la numerosissima schiera di iscritti all’albo, portavoce dei potenti, giornalisti autocensurati per convenienza e siti internet amici di tutti, non abbia fatto altro che mettere in atto la stessa dinamica di mistificazione della realtà, servita ad etichettare in passato i girotondi come deriva qualunquistica e manifestazioni come quella di piazza Farnese a Roma come un attacco di Di Pietro a Napolitano. Qualche giovane blogger ha addirittura ironizzato sul coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti, scrivendo che il direttore di ANTIMAFIAduemila la pensa come Totò Riina.
Piccoli Bruno Vespa crescono.
Egidio Morici
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