E’ il 16 maggio 1992, una settimana prima della strage di Capaci. A Castelvetrano un’auto brucia e, a pochi metri di distanza, una bottiglia con residui di liquido infiammabile lascia pochi dubbi sulla natura dell’incendio. Un ragazzino di quindici anni tenta di spegnere le fiamme che stanno divorando la macchina. Suo papà l’aveva aveva comprata proprio perché piaceva a lui.

La mamma fatica a trattenerlo e il fuoco sembra un gigante maligno. Alla fine sull’asfalto rimane soltanto un ammasso annerito e negli occhi un misto di rabbia, paura e amarezza.
No, nessun regolamento di conti tra mafiosi o spacciatori, l’alfa romeo rossa appartiene ad una persona per bene: un preside.
Il suo nome è Francesco Fiordaliso, colpevole di aver organizzato dei dibattiti a scuola con personaggi non graditi, come il giudice Carlo Palermo, dopo l’attentato di Pizzolungo, o i procuratori Falcone e Borsellino.

Sette giorni dopo, il tritolo uccide Falcone e il 19 luglio tocca a Borsellino: una furia spaventosa.
Intanto i condomini del palazzo dove il preside abita con la sua famiglia non rimangono in silenzio. Fanno sentire la propria voce per chiedergli di ripristinare a sue spese il prospetto deturpato dalle fiamme, guardandosi bene anche dal posteggiare la propria macchina vicino a quella della moglie. Non si sa mai.
I colleghi con cui il preside andava per le riunioni a Trapani o a Palermo, non sono più disponibili a viaggiare con lui. Perfino gli stessi cognati, con i quali aveva diviso una villetta per l’estate, rinunciano alla villeggiatura.
Schiacciato dalla pressione di una città così difficile, ha l’opportunità di assumere la presidenza di un liceo nella vicina Mazara del Vallo, una sorta di esilio volontario che dura circa dieci anni.
Poi però ritorna a Castelvetrano, alla guida di due licei, prefissandosi di operare con discrezione, evitando ogni forma di visibilità, ma non rinunciando alla sua azione educativa sulla legalità.
Nel corso degli anni organizza a scuola tantissimi convegni, incontri e tavole rotonde dove si parla di mafia, con nomi e cognomi.

Uno dei più recenti e significativi è quello del 21 maggio scorso, intitolato “Dal ricordo delle vittime della mafia per una nuova etica delle responsabilità”. Per pubblicizzarlo il preside fa affiggere sui due lati del totem davanti al liceo classico, un manifesto che ritrae Falcone e Borsellino, che però scompare la notte successiva.
Il 10 giugno il preside riceve un bossolo di una cartuccia dentro una busta bianca. Il collegamento tra le due azioni intimidatrici diviene evidente, anche se i media confondono la tavola rotonda del 21 con il corteo per la legalità del giorno dopo, al punto che nella notizia riportata da varie redazioni, appare un’unica data: quella del 22 maggio. Perfino del manifesto sparito, si dirà invece che era lì a pubblicizzare la manifestazione organizzata per l’anniversario della strage di Capaci: quella preparata da alcuni docenti e da un gruppo di studenti del liceo scientifico, molto partecipata al corteo del sabato mattina e quasi deserta il giorno dopo, proprio durante il minuto di silenzio per ricordare la strage di Capaci.

Ma perché questa benedetta tavola rotonda del 21 maggio è passata quasi sotto silenzio? Perché il relativo manifesto sparito è stato attribuito ad un altro evento?
E soprattutto, che cosa si è detto in quella tavola rotonda?
Oltre a ricordare Giovanni Falcone, nell’aula magna del liceo classico, si è parlato di mafia. E lo si è fatto senza tanti giri di parole.
Tra gli ospiti, l’europarlamentare Rosario Crocetta ha raccontato la sua esperienza nel contrasto alla criminalità organizzata in una città difficile come Gela. Senza peli sulla lingua ha precisato però di non essere tanto incline a partecipare alle commemorazioni, temendo di trovarsi magari allo stesso tavolo con personaggi politici che si dichiarano antimafiosi e che poi in parlamento hanno votato la legge contro le intercettazioni che di fatto indebolisce la lotta a Cosa nostra.

I giovani non sembravano affatto annoiati da una grigia conferenza, perché hanno partecipato con scroscianti applausi.
Da quell’aula magna, il senatore Beppe Lumia, anche lui ospite dell’incontro, aveva lanciato un appello: “Chi fa parte della famiglia di Matteo Messina Denaro si ribelli, guardando all’esempio di Peppino Impastato, di Rita Atria e sua cognata Piera Aiello”. Inoltre aveva aggiunto: “Occorre anche stare attenti a certe presenze dentro il consiglio comunale di Castelvetrano. Interrogatevi, guardatevi dentro e non scandalizzatevi quando dico queste cose”.
Ecco il perché della sparizione di quel manifesto. Ecco il perché della busta col bossolo.
Nomi e cognomi, espliciti inviti a ribellarsi, forse qualcosa di più incisivo rispetto ai più generici e meno rischiosi “si alla legalità”.

Pochi mesi fa, nell’introduzione all’ultimo annuario Logoi del liceo, Fiordaliso scrive senza remore di una Castelvetrano dove “non si muove foglia che Matteo Messina Denaro non voglia”; dove la mafia “vuole avere il dominio su tutti e tutto, con una presenza capillare in vasti settori della vita pubblica e privata”; dove “i rampolli dei mafiosi fanno il bello e il cattivo tempo a scuola senza che nessuno osi contrastarli”; dove “la mafia va in doppio petto, frequenta i circoli e i salotti buoni, è osannata e riverita, esercita il potere economico anche con il mondo politico e con la società che conta”.

C’è da chiedersi se la comunità, oltre ad esprimere l’innegabile solidarietà a chi viene intimidito, è pronta anche a condividere quei contenuti scomodi che stanno alla base delle intimidazioni.
Oggi la scelta di Fiordaliso di non partecipare con gli studenti all’incontro dello scorso 19 gennaio con Ingroia e il pentito Calcara, organizzato dall’associazione antiracket, pur se discutibile, non può certo rappresentare l’intera identità di una persona da trent’anni impegnata contro la mafia.
Associare il preside Fiordaliso soltanto a quest’ultima scelta sarebbe un’operazione colpevolmente superficiale della quale, forse più ancora dell’incontro disertato, Matteo Messina Denaro (e non solo) sarebbe contento due volte.

Egidio Morici

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