beliceDi notte Gibellina diventa un paese di cani. L’eco ne moltiplica i latrati nelle strade deserte. Di giorno le bestie dormono nelle campagne e nelle rovine, col buio scendono in cerca di cibo nelle larghe strade della New Town nata dal terremoto.

Dalla terrazza del mio B&B vedo un unico gatto in giro, grosso e nero come Belzebù, che ha afferrato un pipistrello e gli sta divorando lentamente le ali, mentre quello agonizza sull’asfalto incapace di volare. Belìce si chiamava la valle che da Salaparuta scende fino all’acropoli di Selinunte sul Canale di Sicilia. Belìce con l’accento sulla “i”. Poi venne il terremoto e la tv nazionale disse Bèlice, con quell’arretramento sulla “e” che divenne sinonimo di fallimento, e così la valle perse il nome, dopo aver già perso la memoria.

Oggi, nemmeno i siciliani chiamano più il posto nel modo giusto, all’araba, dal nome antico del fiume – U-Bilìk – che scende con due affluenti gemelli dalla Piana degli Albanesi e Corleone.

La valle nasconde un preoccupante vuoto di memoria storica. Dopo quarant’anni non si sa ancora nulla o quasi della sismica di questo pezzo di Sicilia. In due millenni, niente documenti scritti. Dagli scavi emergono segni di distruzioni antiche, ma nessuno sa se attribuirle ai tremori del Profondo o alle guerre che da sempre tempestano la storia siciliana. Le stesse rovine di Gibellina vecchia – dove una colata di calce ha ingoiato le case per trasformarle in uno sconvolgente monumento alla distruzione – non capisci se attribuirle al volere di un re o alla forza della natura.

Caldo turco, un ventilatore gira sopra il letto e fa vorticare domande. Com’è possibile che la scossa del ’68 sia un caso isolato? Per quale motivo i terremoti documentati riguardano tutti l’oriente dell’Isola? Che dire delle rovine di Selinunte, devastata da due scosse micidiali di cui non si ha riscontro nelle cronache? L’enigma nasce da un vuoto sismico o informativo? E, ammesso che la Sicilia occidentale sia davvero “in sonno”, c’è da fidarsi di un così lungo letargo della terra?


Sotto il rasoio del barbiere in viale Empedocle, chiudo gli occhi per ascoltare le voci del paese, ma oltre la tendina scacciamosche sento solo silenzio e passeri. Strade troppo larghe per la vita di una terra dove ci si chiama dalle finestre. Passa un’auto ogni dieci minuti, poi il venditore di surgelati, il carretto delle pesche, il pescivendolo che urla come un muezzin dai minareti di Fez. Chiedo a un avventore gentile com’è il paese. “Tranquillo. Ma vuoto. I giovani scappano”. Già, tranquillo. “Non si sta male, almeno non c’è il caos della costa. Qui il tempo si è fermato”. Gibellina nuova non ha centro e fin che non lo capisci giri a vuoto, tutte le strade ti si mettono di traverso e ti portano fuori, sono centrifughe come in un kolchoz sovietico. C’è un solo posto dove il suo vuoto diventa tollerabile: il cimitero. Anche quello è pianificato per quartieri: tombe quadrate (famiglie Nastasi, Scordato, Bonanno), a cupola (Calogero, Fontana, Terranova), basse con lucernaio (Inzerillo, Pizzolato, Fontana), e tutti gli inquilini son lì dalla stessa data, 15 gennaio 1968. Spartiacque tra il Prima e il Dopo.

Il Principe abita in alto, fuori dal paese, in una fattoria trasformata in museo e quartier generale dei grandi eventi dell’estate. Ludovico Corrao, 85 anni, ex senatore del Pci che venne a patti con l’Msi di Almirante, è uomo azzimato con occhi azzurri da lord inglese e la voce sommessa di chi è abituato a comandare. Con un cenno ordina un gelato al pistacchio, poi inizia a raccontare una storia che parte dal troiano Enea e arriva a lui stesso, attraverso i millenni di “questa terra sulfurea che lascia terremoti nell’anima e nella creatività”. Difende a spada tratta il suo sogno solitario – la città che ha disegnato – come il compimento di secoli e secoli di lotte sociali contro il baronato infame. Parlategli di tutto, ma non di quanto era bello il vecchio paese. Non spenderà una sola parola per la vita di relazione andata persa nel crollo. Ringhia: “Ah, quello era il mondo delle coppole storte e degli scialli neri. Un mondo di lutti, dolori, fame e miseria”. Batte il pugno sul tavolo: “Una vita prona, di gente incapace di ribellarsi…”. Ma quando si torna alla scossa fatale da cui il suo sogno ha preso forma, Corrao monarca di Gibellina ridispiega tutte le vele della sua vena profetica. “Vada, vada sull’Etna se vuole entrare nel mistero di Efesto e Persefone! Vada a Selinunte, e toccherà la potenza del Profondo!”.

Selinunte, impossibile fare a meno di questa Atlantide siciliana: ma per sentire tutta la potenza ammonitrice dalla sua distruzione, meglio non vedere Triscina, a poca distanza dal più grande parco archeologico del Mediterraneo, 60 mila case abusive o non finite, una demenza nata dai soldi avvelenati del Belìce. Da una parte hai le nobilissime rovine, il Sublime giustiziato dalla mano dell’Altissimo, le corone dei re abbattute. Dall’altra il terremoto mallevadore del brutto e complice del malaffare. Una vergogna in un Paese civile.

Solo di notte, quando le rondini smettono di roteare e i turisti vanno via, puoi intuire cosa nasconde il tempio G, ciclopico e mai finito, con colonne di dimensioni egizie abbattute come fuscelli, capitelli di novanta tonnellate dislocati in modo da rappresentare non un crollo gravitazionale ma una spaventosa e inspiegabile torsione. La rovina nasce da un puzzle non scomponibile di elementi: guerre, abbandoni, smantellamenti, dilapidazioni. E poi i terremoti, avvenuti chissà quando, uno forse nel terzo secolo avanti Cristo, e uno molto più tardi, forse dopo il Mille. Infinitamente più potente di quello del Belìce. Notte di grilli tra le colonne dei ciclopi, vento di terra tra le agavi e il finocchietto. Mi accomodo sul basamento del tempio E per aspettare la Luna, e penso che per sentire la voce dell’abisso è meglio mettersi così, stesi al suolo, perché il corpo stesso diventi sismografo. L’ho imparato in Friuli, una sera di settembre del ’76, in un attendamento di soccorritori. Il mostro che aveva squarciato la terra in maggio tornò a ruggire mentre mi appisolavo, e la cosa più orrenda non fu la scossa ma la nota cavernosa, cupa come la notte, che insieme a una vampata di calore attraversò il materassino e passò nella mia cassa toracica direttamente dall’inferno.

Paolo Rumiz

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