[di Paolo Cusumano] Il primo segnale della tragedia che sconvolse il Belìce si manifestò il 14 gennaio 1968 alle 13:29. Nel pomeriggio altre scosse fomentarono l’inquietudine ma non riuscirono a trasformarla in terrore.

Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, però, un violento evento sismico, di magnitudo momento 6.1, si espanse nel Belice, in un’area della Sicilia occidentale compresa tra la provincia di Agrigento, quella di Trapani e quella di Palermo.

Gibellina, Salaparuta, e Montevago, risultano completamente distrutte; Poggioreale, Santa Margherita Belice e Santa Ninfa sono quasi annichilite; Partanna, Salemi e Contessa Entellina recano ovunque gravi danni. Calatafimi, Camporeale, Chiusa Sclafani, Menfi, Sambuca, Vita e Castelvetrano perdono una parte importante del loro patrimonio architettonico ma avranno un numero inferiore di vittime, feriti e sfollati.

La “diaspora” congenita del popolo del Belìce si esaspererà ancora di più: la popolazione si andrà dimezzando e chi resterà sarà incastrato in un “viaggio” di ricostruzione lento e incompleto che muterà tutto. Le scosse sismiche continueranno per mesi, talvolta in maniera estremamente violenta, spesso in maniera lieve ma sufficiente all’emergere d’ondate d’ansia e smarrimento. Nel cuore di molte persone questi sussulti continueranno per anni, in alcune per sempre.

«Ascoltate la voce di chi soffre, date voce a chi soffre: tra le macerie del terremoto, giorno per giorno si distrugge l’ansia del vivere, si decompone lo stesso germe della democrazia» (Antonio Uccello, in Danilo Dolci, 2008).

Il male, il dolore che frantumò questa porzione di Sicilia, come ogni altro evento umano e naturale, ci appartiene anche se non lo abbiamo vissuto direttamente: è una risonanza continua e implicita nel nostro mondo, non ce ne sbarazzeremo mai e, nonostante il trascorrere del tempo e il mutarsi dei luoghi, potremo al massimo riuscire ad armonizzarla in qualche modo con le nostre vite. “Il significato simbolico di uno spazio può sopravvivere persino alla sua propria esistenza materiale, o alla sua localizzazione geografica” (B. Rodeghiero, 2008).

Anche quando l’azione di coloro che sono legati a questa terra si svolge al di fuori dei confini di questa presunta valle, l’ombra del Belìce s’immerge nella memoria, nelle visioni, nella nostalgia, nella rabbia e, soprattutto, nei loro occhi. La conseguente visione del mondo è sismica: contiene in sé l’esplosione della valle che, a distanza di decenni da quel gennaio del sessantotto, continua a far tremare la carne come i muri dei paesi. Il segno lasciato non ha un’interpretazione univoca eppure nella storia del Belìce io ritrovo un’eccedenza di dolore rispetto alla possibilità di un nuovo avvenire o allo sfaldarsi di mentalità opprimenti (soprattutto per le donne).

Andando oltre il lutto di cui l’evento ha macchiato la terra (o di cui la terra ha macchiato l’evento) non si può far tacere, per convesso, la speranza endemica di riscatto che ha serpeggiato fra molta gente in quegli anni. Al di là delle effimere opportunità fornite dalla ricostruzione, molte persone hanno mostrato una gioia sana, non maniacale, che li ha coinvolti in un’entusiasmante mutamento della loro vita, attraverso un cammino di disvelamento del divino che si celava dentro loro (entusiasmo deriva dal greco énteos, composto da én, in, e teos, dio, ovvero “il dio dentro”). Anche la parola disastro può avere quindi una doppia accezione contrastante in quanto, se da una parte deriva da dal latino disastrum – composto di dis, col senso di contrario, cattivo, maligno e astrum, nel senso di ventura – nell’accezione di sfortuna o danno, dis-astro, come scrive Steiner (1994), è anche “una pioggia di stelle sull’umanità” e quindi l’abbattimento di uno status quo e la possibilità di un nuovo inizio aperto all’ignoto e quindi anche a un ipotetico bene.

I paesi del Belìce negli anni sessanta e settanta possono vantare uno storia d’attivismo, di impegno, di speranza del futuro che è quasi sconosciuta ai più, una storia che andrebbe riscoperta, raccontata nuovamente a tutti, a prescindere dall’età, per confrontare e riconnettere questo sfuggente presente che fatichiamo a comprendere con le vicende del nostro recente passato. Bisognerebbe riascoltare la voce di chi visse quegli anni, leggere e confrontare testi che raccontano storie non allineate, in parziale contrasto fra loro, come I Ministri dal Cielo (L. Barbera, 2011), L’Infanzia è un Terremoto (C. Susani, 2008), Profonda Sicilia (M. Farinella, 1968), I Miei Diciotto Anni nel Belìce (A. Riboldi, 1977a), ’68 Terremoto in Sicilia (A, Rigoli, 1968), Lettere dal Belìce e al Belìce (A. Riboldi, 1977b), Te la do io Brasilia (M. La Ferla, 2004), Per Gibellina (M. Manganaro, 2006), Valle del Belìce: Terremoto di Stato (F. Cagnoni, 1976), Belìce: Lo Stato Fuorilegge (a cura del Centro Studi e Iniziative Valle del Belìce, 1970), Belìce 1980. Luoghi problemi progetti dodici anni dopo il terremoto, (A. Cagnardi 1981), Un Popolo in Piazza: La Lezione del Belìce (G. Ingardia, S. Ingrassia, 1988), Salaparuta ieri e oggi, (B. Graffagnino, 1969), La terribile occasione. Imprenditorialità e sviluppo in una comunità del Belìce (M. Rostan M., 1998). Altri testi, che parlano invece di architetture perdute e architetture contemporanee, ci spiegano come è mutato fisicamente il Belìce negli anni. Fra i molti: Belìce 1968–2008: barocco perduto, barocco dimenticato (G. Antista, D. Sutera), Il restauro di necessità: la Valle del Belìce, (G. C. Infranca, 1993), Santa Margherita di Belice: una fisionomia scomparsa, (T. Giaccone, 1987), Gibellina: un luogo, una città, un museo (a cura di S. Giacchino, M. N. Rotelli, 2004). Tutto questo magma di informazioni va discusso, vissuto e tramandato come autentico patrimonio per progettare con maggiore consapevolezza il futuro.

È fondamentale che ogni uomo legato al Belice perda un distacco emotivo che, in relazione a questi luoghi, non gli appartiene: “Ogni storia diventa cronaca quando non è più pensata, ma solamente ricordata nelle astratte parole …” (B. Croce, 2001). Lo spunto storico e geografico è solo la base attraverso cui poter rivivere un’emotività connessa a quegli eventi. Il “reale” è ancora immerso nella memoria di questa gente, anzi mi permetto di dire la “mia gente”, ed ha fortemente influito e influirà ancora nelle generazioni future: il suo fantasma si trasforma e tormenta sempre con modalità nuove e/o antiche (come, ad esempio, l’amarezza di un’emigrazione forzata). Coglierne l’essenza è un’opera immane che va al di là delle mie forze, ma mi è impossibile rinunciare alla sua metafora sismica, alla forza di un cambiamento devastante e alle vibrazioni emotive che quei luoghi continuano a donare a chiunque vi si avvicini con cuore aperto. Il topos diviene quindi sotterraneo, si trasferisce nel deserto interiore, in un luogo “altro” dove tutto costantemente muore e rinasce e i cui confini sono sempre nomadi: esattamente come il bisogno espressivo degli artisti di questa terra.

Il prossimo anno scoccherà il cinquantesimo anniversario del terremoto del Belice: spero vivamente che l’intera popolazione Belicina, i suoi amministratori e i suoi artisti abbiano un sussulto vitale, creativo e potente. Sarebbe fantastico se Musicisti, Attori, Pittori, Poeti, Cantanti, Ballerini, Narratori, Scultori, Fotografi, Ginnasti e creativi di ogni sorta, inondassero le vie e le piazze dei paesi del Belice per rivivere il dramma e attraversarlo catarticamente, trascinando con sé coloro che desidereranno partecipare. Tutto ciò però richiede una pianificazione scrupolosa da parte della Politica, nel senso più alto del termine, ed una visione lungimirante. Ai nostri amministratori locali e ai rappresentanti Regionali e Nazionali rivolgo il mio appello: non lasciate che il cinquantesimo anniversario del terremoto del Belice passi in silenzio. Stesso appello rivolgo ai creativi della nostra terra: reimmergetevi nella nostra storia, create e condividete con tutti. La nostra gente ha bisogno di rimemorare, riattraversare il ricordo e rigenerare le proprie radici.

Paolo Cusumano

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