Sono passati vent’anni.
Quell’autostrada sventrata riapparirà dagli schermi piatti dei nuovi televisori pagati a rate, riconsegnandoci la stessa tragedia, la stessa violenza, lo stesso sgomento. Ci saranno centinaia di cerimonie commemorative e di cortei, in cui la storia di Giovanni Falcone verrà trasmessa nei termini lineari e semplici del rapporto di causa ed effetto: da una parte uno Stato che aveva messo in ginocchio la mafia col maxi-processo e dall’altra la terribile reazione di Capaci.
Ai ragazzi verranno presentate le facce dei soliti Riina e Provenzano, unici responsabili dell’orrore, soli rappresentanti di una mafia contadina dalle coppole storte, così distante dal loro mondo. E dal nostro.

Pochi si prenderanno la briga di spiegare che da quando Falcone spostò l’attenzione dalla mafia militare ai colletti bianchi dell’imprenditoria e della politica, subì una lenta e progressiva delegittimazione. Pochi spiegheranno che Falcone fu ucciso prima di quel 23 maggio, da una solitudine creatagli attorno sapientemente.
Anche questa volta, tra musica, cortei e frasi recitate, la mafia sarà un cancro e le persone oneste molte di più. Un mantra che da qualche anno ormai viene ripetuto, soprattutto in Sicilia. Soprattutto in quelle città dove il non essere più associati ai mafiosi è diventato quasi un imperativo categorico, un’operazione di marketing travestita da riscatto sociale.

Ecco che allora, in prima fila, si possono trovare personalità politiche e istituzionali con trascorsi giudiziari “di tutto rispetto”, messi lì da una cultura ipergarantista che si spinge fino a chiamarli a fornire anche loro un contributo ad una lotta alla mafia, sempre più parolaia e alla portata di tutti. Democraticamente.
Ma quanto può durare questa caricatura della mafia in stile coppola e lupara? Per quanto tempo si potrà far finta di non riconoscere il consenso che gran parte della popolazione le concede, attraverso persone appartenenti a quasi tutte le categorie della società, compresi avvocati, commercialisti, architetti, insegnanti, politici?

Davvero si può credere, per esempio, che la maggior parte dei commercianti di Castelvetrano possa volere la cattura di Matteo Messina Denaro, se proprio a lui devono quella privilegiata condizione che li esenta dal pagamento del pizzo?
Hanno un bel dire i politici del luogo quando difendono goffamente il proprio territorio con la vecchia storia che la città sconta una colpa non sua, per aver dato i natali al superboss.
Non è vero. E lo testimoniano gli innumerevoli arresti che, nel corso degli anni, hanno stretto sempre di più il cerchio attorno al latitante, senza però chiudersi mai completamente.
Chi lo sta aiutando? Molto probabilmente gode di coperture istituzionali, ma concretamente è difficile pensare che a questa complessa operazione non partecipino a vario titolo anche “comuni” cittadini.

E allora, siamo davvero sicuri che la mafia non ci appartenga?
O come piuttosto diceva Falcone, “se vogliamo combatterla efficacemente, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”?
Prima di un’autoanalisi però, è necessario sapere perché Falcone è stato ucciso.
Non per vendetta per le condanne del maxi-processo. E nemmeno perché era ad un passo dal terzo livello.
E’ stato possibile eliminarlo, perché era divenuto ormai solo. E forse l’eco di questa solitudine si potè avvertire chiaramente già sette mesi prima di quel 23 maggio, in una dichiarazione che ormai in pochi ricordano.

Il 26 settembre del 1991, nella famosa trasmissione “Speciale Samarcanda”, alla domanda di Costanzo “Ha qualche rimpianto sugli anni siciliani?”,
Falcone risponde: “Il rimpianto è di essere stati a un passo da una svolta epocale e di non essere riuscito a farla e questo per tutta una serie di fatti, di errori, di volontà altrui, però ad un certo punto quello che doveva essere il primo passo di una forte avanzata contro la mafia poi si è disperso in tanti rivoli, in tante pastoie, in tanti contrasti e si è inceppato tutto”.

Prima che la mafia sventrasse quell’autostrada, dai piani alti avevano quindi già provveduto ad inceppare tutto.
Oggi la speranza è che non si inceppi anche l’antimafia. E che le manifestazioni possano diventare i principali canali di una consapevolezza libera da retoriche e revisionismi.

Egidio Morici
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