Non c’è niente di più stucchevole del politicamente corretto nel dover per forza ricordare date e anniversari, ad aprire a comando la chiavetta della commozione o della retorica perché c’è un “compitino” da fare e non ci si può sottrarre a questa incombenza.
Non è questo il caso del 15 gennaio, l’anniversario – il quarantacinquesimo – di un terremoto che ci portiamo dentro, avvenimento non concluso né storicizzato, ma piaga aperta poiché quell’avvenimento, divenuto nell’immaginario collettivo nazionale simbolo di ritardi e inefficienza, mise in luce mali strutturali che non stavano nelle viscere precarie della terra, ma appartenevano alle vicende della gente e al secolare assetto della loro realtà di convivenza.
Lo scriveva Giuseppe Carlo Marino pochi giorni dopo il sisma, aggiungendo significativamente che il terremoto aveva messo in crisi la Sicilia perché da noi tutto era già una crisi permanente: un affaticato equilibrio di depressione, un assetto instabile di contraddizioni all’ombra del malgoverno mai sconfitto integralmente, nonostante la generosa pressione delle forze nuove.
Ho voluto celebrare a modo mio questo quarantacinquesimo, e piuttosto che partecipare a messe e fiaccolate, sermoni, discorsi e rievocazioni, ho ripreso in mano un libro di Vincenzo Consolo, “L’olivo e l’olivastro”, e l’ho divorato in una notte. Il racconto si inizia con una fuga, dopo il terremoto, dalla nativa Gibellina, e già mostra dalla prime pagine l’eredità di una lingua antica fatta di serrata poesia, di aridi solchi e di sassi: “pietrosa e aspra”.
Dal traghetto il protagonista volge il capo all’indietro: “Messina non esiste”. Incontra smarrimento, curiosità e stupore dappertutto. Il treno su cui è salito percorre la penisola, lentamente, con frequenti fermate, giacché quel che è successo (”sacco d’orde barbare o furia di natura”) ha prodotto un mastodontico sconquasso. Il protagonista lascia il paese, ma ad ogni immagine che gli si para davanti, egli vi legge la storia, le vicende, anche sanguinose, di un popolo antico e nobile. Lasciare l’isola è davvero possibile? Messina distrutta dal terremoto s’insinua dentro queste visioni, come se là fosse rimasto il cuore a pompare la sua vita. Non solo: a cercare, in un tentativo disperato e necessario, di preservare la Sicilia tutta dalla morte. La mente compie un pellegrinaggio al tempio della vita, che è il ricordo: “Viaggiatore solitario per un itinerario di conoscenza e amore”.
Sfilano nomi, immagini, paesaggi, da cui l’isola trae il ceppo e il genio della sua immortalità. Quanto più il protagonista si allontana, tanto più la sua isola rinasce alla vita dallo squasso, dal torpore, dallo svenimento. Di fronte ad una tragedia di morte, il pensiero e l’amore vi contrastano con l’effluvio della eternità, generato dal sentimento e dalla ragione. È una rabbiosa sfida contro “l’impotenza” e “la vulnerabilità” delle cose. Che, nel momento in cui veste i panni di una fuga, di un esilio, sia esso provocato da un terremoto, dall’eruzione dell’Etna o genericamente dalla insofferenza e dalla povertà, si trasforma in lamento, in bruciante rimorso.
Non basta fuggire, non basta gridare lo scempio, per sentirsi lontani. Nella sua isola, nuotatore quasi vinto dalla furia del mare, trovò rifugio Ulisse: “Trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro”. V’incontra il regno dei Feaci, “che sono vicini agli dèi”, e vivrà felicemente quei giorni alla reggia di Alcinoo, “in seno ad un’alta civiltà”. Si delineano così le tristezze, le nostalgie, le ferite che sempre accompagnano un esule, un fuggiasco dal proprio paese natale. In Ulisse il protagonista identifica il proprio rimorso e la paura. Paura di ciò che di portentoso è avvenuto nell’isola; rimorso per un viaggio intrapreso come sopravvissuto di una realtà che può sfaldarsi, perdersi, divenire irreale.
Così l’esilio del protagonista, “il viaggiatore”, “il reduce”, “l’Ulisse di sempre”, diventa, in verità, inconsciamente, il racconto del suo ritorno, o meglio, diventa la frusta del ricordo e della memoria che lo sferzerà per sempre, costringendolo costantemente al ritorno, non importa più se con i segni di una qualche fisicità: “Pensava ch’era stato lui per primo a rompere gli ormeggi, allontanarsi, via per tanto tempo” e “non sa dire quando, tanto lontano questo avvenne nel tempo.” Narrando di Ulisse, parla di sé: “Mostri generati dai rimorsi. I più tremendi sono, nella favola, nel poema, nell’isola al centro di quel mare, nelle pieghe più oscure e minacciose della sua natura, nella terribilità del suo vulcano, negli scuotimenti della sua terra, nelle insidie delle sue isole intorno”. E ancora: “Metafora di quel che riserva la vita a chi è nato per caso nell’isola dai tre angoli”. Ma il canto di Consolo, il suo poema, musicato dalla evocata e rimpianta grecità, non finisce qui.
La mente elabora incessantemente quel suo incantato ritorno: quando descrive ciò che di bello e di antico è stato distrutto nell’isola che ha “albe di cristallo” e “sentieri di silenzi”; quando rivede i pescatori: “Laceri, spossati, dormivano sulle reti, al riparo delle vele”; o i cavatori di pietra: “Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla polvere”; quando ricorda personaggi che hanno percorso l’isola, tra i quali Verga (cui rende un lungo, fiero e commosso omaggio, tutto da ammirare), Vittorini, Pirandello, De Roberto, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Piccolo, Carlo Levi, Buttitta, Goethe, Guy de Maupassant, Caravaggio, Antonello da Messina, Guttuso. Egli ritorna esule lontano, l’amore ha disegnato nella sua mente un perenne e definitivo viaggio del ritorno, a cui ha accesso e può accostarsi con il canto felice della poesia. La prosa ispirata di Consolo ricorda in certi tratti, ancor più accentuata, quella di Mario Tobino (al quale si accosta anche per il coraggio di certe denunce sociali), prosa ardimentosa, di un ardimento che è proprio della poesia, che sgorga da profondità sconosciute, libere ed immacolate.
Passano le ombre dell’antico, del mito, della leggenda, davanti agli esili tralci (”sagome cave”) della modernità che tutto ha reso vano (”ceri giganti accesi per un dio della malvagità e del disastro”), alla maniera di ciò che videro, nella discesa agli inferi, gli occhi di Ulisse, l’esule per eccellenza. Ed è Ulisse che incessantemente accompagna il ritorno del protagonista; sempre lo intravediamo accanto ad ogni movimento, ad ogni visione, ad ogni rievocazione, ad ogni personaggio, in ogni luogo (tantissimi, tra grandi e piccoli: da Messina a Catania, Siracusa, Palermo, Trapani, Gibellina, Acitrezza, Caltagirone, Gela, Lipari, Cefalù, Ustica, Noto, Mazara) visitato e rivisitato continuamente dalla memoria e dal ricordo. E di più: tutti gli esuli siciliani diventano e saranno sempre Ulisse (”vide il viaggio d’ogni uomo, l’avventura d’ogni Ulisse”), e in questo modo il tempo antico, con le sue vestigia, coi suoi protagonisti da Eschilo a Catone, fascia il presente, lo annichilisce, e ciò facendo esalta gli afrori del passato che mai, pur in presenza di grandi trasformazioni e apocalittiche calamità, hanno abbandonato e abbandonano l’isola. La Sicilia, cioè, al di là del rancore che si può provare per il suo degrado, appare come una terra mitica nel cui impasto degenerativo prodotto via via dai secoli resta il lievito del suo nobile lignaggio, che le proviene da quei migranti greci di cui l’autore scrive: “Contadini, pescatori, artigiani megaresi trasportarono sulle loro barche, qui trapiantarono, vicino ai siculi indigeni, le loro credenze, i loro costumi e linguaggi.” Insomma, forse non siamo irredimibili.
Ecco perché nel Belìce oggi è meglio risparmiare le solite litanie sui ritardi dello Stato e della Regione, sulla miopia della classe politica, sulle inefficienze della burocrazia. Sono storie che conosciamo, e di cui ciascuno deve valutare anche il peso delle proprie responsabilità in termini di acquiescenza, di mancata partecipazione, di mancato controllo. Vogliamo, piuttosto, guardare ai segni di rinascita e di ripresa, alle occasioni di sviluppo che, anche alla luce della nostra collocazione mediterranea e degli strumenti di programmazione e di concertazione, si offrono a questo territorio, ponte naturale tra due continenti, pieno di storia e di cultura, ricco di potenzialità economiche nel campo del turismo, dell’agricoltura e della piccola impresa; davvero una terra… in moto.
Ecco perché il migliore esempio lo ha dato Menfi che, invece di ricorrere alle solite trite liturgie parolaie, ha inaugurato, senza strepito e clamore, un nuovo museo che raccoglie, fra l’altro, parte del patrimonio artistico recuperato fra le macerie di chiese crollate, in parte per la fatalità dell’evento e, in gran parte, per l’opera delle ruspe guidate da uomini insipienti.
AUTORE. Francesco Saverio Calcara
complimento. bellissimo articolo meriterebbe una finestra nella pagina “cultura” del corriere della sera.
Caro Francesco, il tuo bellissimo articolo svolge benissimo il tema del ricordo, del dolore, della struggente bellezza e al contempo tanta miseria della nostra terra.
Vorrei aggiungere solo un piccolo comma.
Non sarebbe giusto anche guardare al sisma del 68 come di un evento assai doloroso per tante famiglie, ma anche un evento rinnovatore sia per un tessuto urbano arcaico quasi medievale, sia per una mentalità retriva e superata.
Quella che è da chiedersi ancora oggi è: ma c’è bisogno di un cataclisma, di una disgrazia collettiva,per accorgersi della bellezza e della potenzialità della nostra Sicilia?
Caro Francesco, le belle menti illuminate, come la tua, hanno, a mio modesto parere,oggi più che mai, il dovere di uscire fuori, di scrivere, sottolineare,protestare, al mondo intero, che deve essere qui, qui nella nostra terra, il futuro dei nostri giovani.
Luigi
oggi piu’ che mai si sente la necessità di essere guidati dai “filosofi” cosi’ come auspicato 2500 anni addietro da Platone. Ma la storia di oggi ci insegna che questo rimane solo utopia: la vera intelighenzia rimane fuori dal coro mentre quella meno nobile, che entra in politica in poco tempo assume un ruolo di “parte”.
Non ero neanche nato nel 68 ma la mia formazione è stata segnata anche da quel terribile evento che ha sicuramento segnato un momento di “rottura” sociale ed economica per il territorio del belice.
Occasione di riscatto e rinascita ammirando le sculture della nuova Gibellina, occasione di accrescimento di interessi particolari se si guardano gli incomprensibili ponti del camarro a Partanna oggi “cadenti”.
Anche una drammatica catastrofe come un terremoto offre nella sua disperazione una possibilità di riscatto nel bene o nel male!!!
Saluti
Bravo puntuale innamorato tenero disincantato dolente altisonante
Ero in Sicilia da poco piu’ di due anni, quando imparai cosa fosse un terremoto. Quella tragica notte ero a Mazara e feci appena in tempo a vedere l’armadio della mia stanza muoversi verso il mio letto. Poi fu il buio. La mattina dopo ero a Gibellina con mio padre, assieme a tanti studenti, militari e persone di buona volonta’ partecipavo alle iniziative di volontariato (non c’era la Protezione Civile allora ma civili e partecipi delle altrui disgrazie lo si era molto piu’ di oggi). Sono rimasto in questo territorio, affascinato dalle sue eccellenze, che nemmeno quel terremoto (di cui ancora oggi dalla mia casa, in pieno Centro Storico a Castelvetrano, sono evidenti i segni) e la cattica politica hanno potuto sradicare. Sono bastati pochi ma significativi segnali di un cambiamento atteso per tanto tempo e strenuamente voluto, per rendere evidenti le petenzialita’ di questa terra. Le nuove forze politiche sembrano avere imboccato la strada maestra per una tardiva ma ineluttabile ripresa. E’ il momento giusto per intraprendere iniziative che cambino il significato nel mondo di queste terre della Valle del Belice, perche’ escano dal buio che le avvolge da quella notte. Un terremoto ha unito tante distinte comunita’ nella disgrazia, un grande progetto extra urbano dovrebbe riunire le forze migliori di Castelvetrano, Menfi, Partanna, Gibellina e di tutti gli altri Comuni della Valle per lo sviluppo di un sistema ricettivo di qualita’. Non e’ necessario inventarsi nulla, basta dare concreto valore a cio’ che gia’ esiste da sempre, al bello dei paesaggi e del mare, ai prodotti della terra ed alle immense risorse culturali. Basta organizzarsi e stare in guardia contro le misere speculazioni, che fanno rima con le paventate trivellazioni.
tante belle parole..ma nessuno risponde piccato agli insulti della lega nord contro il belice….
Cara Anna, un articolo come questo è la migliore risposta agli insulti della Lega Nord, è la dimostrazione che qui vi sono intelligenze – come quella del prof. Calcara – che non si limitano alle belle (anzi bellissime) parole, ma che hanno prodotto tanti fatti concreti.
Peccato che questi elementi siano sistematicamente discriminati dalla politica che, invece, troppo spesso, esprime autentici quaquaraquà.
Complimenti, professore!