“Finalmente dopo più di 60 anni la famiglia, la Cgil e il movimento antimafia avranno una tomba dove ricordare Placido Rizzotto, un eroe ucciso a Corleone dalla Cosa nostra di Luciano Liggio e del dottore Navarra.
Quella Cosa nostra che dopo questo omicidio iniziò un lungo cammino che la portò negli anni più recenti a scalare i vertici dell’organizzazione”.
Lo dichiara il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione antimafia, commentando l’esito dell’esame del dna su uno scheletro con il quale è stata accertata l’identità del sindacalista della Cgil.
La Polizia scientifica di Palermo ha attribuito i resti di uno scheletro, trovato nel settembre 2009 a Corleone, al sindacalista della Cgil Placido Rizzotto, rapito dalla mafia il 10 marzo del 1948 e poi ucciso. I resti erano stati trovati dagli agenti del commissariato di Corleone in una foiba della localita’ Rocca Busambra. Comparati a quelli, riesumati, di un congiunto di Rizzotto, morto anni fa per per cause naturali, è stato possibile risalire all’identità del partigiano-sindacalista.
“Placido Rizzotto – aggiunge Lumia – è stato un grande uomo che si è battuto contro la mafia per difendere i diritti dei braccianti, dei contadini e dei lavoratori di Corleone. Cosa nostra lo ha ucciso non solo fisicamente, ma ha anche tentato di cancellarne la memoria.
L’allora capitano Dalla Chiesa aveva intuito il posto dove era stato occultato il cadavere. Adesso se ne hanno anche le prove. Oggi grazie all’impegno di Dino Paternostro della Cgil locale, del nipote che porta il suo stesso nome, dei cittadini, della società civile, delle forze dell’ordine e della magistratura è stata fatta giustizia”.
Ufficio stampa
Matteo Scirè
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E’ interessante quello che scrive Dino Paternostro del pastorello che, per caso, assistette alla morte di Rizzottp:
“Giuseppe Letizia aveva appena compiuto 13 anni la notte di quel 10 marzo 1948. Era rimasto solo in campagna, in contrada “Malvello”, a custodire il piccolo gregge smagrito del padre. Come tanti altri ragazzini corleonesi, si era dovuto abituare presto alla dura vita di campagna. Sapeva di doversi fare forza, sapeva che era suo dovere aiutare la famiglia, ma aveva lo stesso paura. Pensava alle calde braccia della mamma, alla sicurezza delle quattro mura di casa e a stento riuscì a cacciare indietro due grossi lacrimoni.
All’improvviso trasalì per il rombo del motore di una macchina. Sgranò ali occhi nel buio della notte per cercare di vedere meglio, e distinse a malapena delle ombre. «Mamma mia – disse a se stesso – e questi chi sono? Cosa vogliono?». Si fece ancora più piccolo e rimase fermo nella mangiatoia del casolare dove stava cercando di prendere sonno. Le ombre si avvicinavano, trascinando un’altra ombra urlante. «Che volete da me? Lasciatemi andare!», gridava l’ombra tra le ombre. Ma quelle non parlavano. Con un calcio aprirono la porta del casolare, che credevano disabitato, ed entrarono. Accesero una candela, ma la sua luce era troppo fioca per illuminare tutto lo stanzone. Poi cominciarono a colpire con pugni e calci “l’ombra” che urlava sempre di più.
lì piccolo Giuseppe era terrorizzato dalla paura. Non fiatava per non farsi sentire. Poi vide tre grosse vampate e sentì i botti che squarciarono l’aria. “L’ombra” adesso non urlava più, rantolava per terra. Furono gli ultimi “fotogrammi” che gli rimasero negli occhi, poi il ragazzo svenne per il terrore.
E lo trovò così il giorno dopo suo padre. Cercò di svegliarlo, ma quando il ragazzino aprì gli occhi aveva lo sguardo allucinato e urlava frasi sconnesse: «No, no, non uccidetelo! Che vi ha fatto? Lasciatelo stare!». “Ha la febbre… delira…”, pensò preoccupato il padre. Lo mise a cavallo del mulo e lo portò in paese, all’ospedale. Ai due medici, che gli si presentarono – il dott. Michele Navarra e il dott. Ignazio Dell’Aria – raccontò brevemente come aveva trovato il figlio e questi gli praticarono le prime cure. Ma, il giorno dopo, il piccolo Giuseppe mori.
Il caso sarebbe passato sotto silenzio, se “L’Unità” del 13 marzo ’48 non avesse pubblicato un articolo-shock in prima pagina: «C’è motivo di pensare, e molti in paese sono a pensarla così – scriveva il giornale – che il bambino sia stato involontariamente testimone dell’uccisione di Rizzotto e che le minacce e le intimidazioni lo abbiano talmente sconvolto da provocargli uno shock e come conseguenza di esso la morte».
Ancora più esplicita “La Voce della Sicilia” del 21 marzo ‘48: «Un bimbo morente ha denunciato gli assassini che uccisero Placido Rizzotto nel feudo Malvello». E non ci volle molto a far risalire le cause della morte alle “cure” praticategli da Navarra, notoriamente capomafia di Corleone, e da Dell’Aria, che qualche giorno dopo chiuse il suo studio ed emigrò in Australia”.
Adesso però, i funerali di stato per Placido Rizzotto.
VIVA PLACIDO RIZZOTTO..
…carissimo amico, perchè perseveri nel fregarmi lo stramaledetto nickname?
Sei povero di fantasia? Thè, te ne regalo uno. “nalph”.