Estate, tempo di ritorni. Mescolati ai turisti veri, indovino facce dimenticate che mi riportano indietro, nel tempo.

Compagni di scuola, ragazzi con cui giocavo o, magari, facevo a sassate; partiti, come tanti, si aggirano in paese con malcelata nostalgia, dolore del ritorno, appunto.

Ne ho incontrato uno, ieri, in via Mannone, e nelle sue rughe ho visto le mie e il tempo che incalza. Viaggia la mente, naviga l’immaginazione sugli oceani della memoria. Soffia il vento tra le mute pietre della città morta, dove una volta, prima delle dune, si andava col mangiadischi a tentar di rubare una fugace carezza, un timido bacio, un primo brivido d’amore.

Guardo il mare che solo da noi, come diceva Sciascia, ha il colore del vino, mentre accavalla onde frastagliate e dondola alla foce dell’esausto Selino una tavola levigata, relitto, forse, di un inverno piovoso che lo aveva fatto ridiventare il fiume impetuoso dei mulini. Ma lieve è stata nell’animo quella pioggia irruente, tra le vie dell’Isola dove sono nato, dove segreti e sogni mi hanno illuso; allorché ne ero lontano, l’acqua, greve e monotona del Continente, penetrava, invece, nelle ossa, inzuppava gli abiti e bagnava la memoria.

Figlio del caos, sento sulla pelle il peso dei secoli, le razze e le stirpi che hanno mescolato il loro sangue al mio, la sensibilità che vi hanno inculcato punici e greci, romani e bizantini, saraceni e normanni antichi. Ma vivo il mio tempo e porto la mia testimonianza. Quando perduti amici mi abbracciano, sento il peso di chi vive un esilio dorato, voluto certo, ma pur sempre lontananza. Con la vostra partenza si è spezzato il filo della rassegnazione che teneva uniti padri e figli; in un mondo in pieno divenire, avete cercato il nuovo mondo e con il vostro andare si è dato il segno dei tempi, anticipato la fine del millennio, segnato il cambiamento.

Come la nostra grande tradizione contadina era stata spazzata dai miti della zolfara e della tonnara, il vostro emigrare ha creato il miraggio ma vi ha confusi, soli nel Nord lontano. Sodali che siete partiti, non cercate per gratificazione, non portate tristezza, avete lasciato a chi restava il compito di conservare i luoghi della nostra memoria. A volte tornate però, e vi sentite spaesati. Ricorrete all’immaginazione, lo vedo; e così tentate di fermare il tempo sul cortile, sulla piazza, sulle vie che forse ormai già non esistono più. Fissate la vostra mente sulle ombre che sempre più numerose si affollano i dintorni della reminiscenza.

Sono presenze silenziose che un gesto, una musica, un sapore, un nome sembra portare di nuovo in vita. Una folla muta che esiste soltanto nel ricordo e alla quale vorreste raccontare storie del domani, dividere con loro preoccupazioni che più non li interessano. Oggi vi sentite traditi nelle case che non esistono più, nelle strade cancellate, nella gente che è scomparsa, nella memoria di campi che nessuno vuole coltivare. Una volta c’erano i poeti; a loro era affidato il compito della memoria e dell’anima, oggi sono stati stritolati dalle tecnologie del linguaggio e dalla confusione della morale.

Una volta c’era il Siciliano, con un carattere simile da capo Lilibeo a Capo Passero, da Marzameni al pilone del Faro. Oggi tutto è confusione, soltanto da lontano vive questa terra e nelle vicende della mente rivive nei valori che forse si sono persi. E voi, figli del caos, prima o poi ritornerete a casa, per passeggiare assieme a noi, che siam rimasti, nelle strade deserte, come quando, nel cuore della notte la città sembrava appartenerci e ci sentivamo difesi da quei luoghi consueti che ci chiudevano in un abbraccio di protezione. Prima o poi ritornerete alla ricerca delle vostre (e nostre) radici, e chiederete conto a chi è restato che cosa avete fatto della nostra Isola di sole?

AUTORE.   Francesco Saverio Calcara