Avendo paragonato i social network ad una “piazza virtuale” dove tutti conoscono tutti e dove le informazioni immesse sono immediatamente fruibili da chiunque nel web, è evidente che in questo ambito diversi sono i comportamenti illeciti che possono coinvolgere gli utenti che fanno uso di detto strumento.
Primo fra tutti, come anche richiamato dalla Autorità del Garante, sono i furti di identità che si realizzano ogni qualvolta una informazione relativa a persona fisica o azienda è ottenuta in modo fraudolento allo scopo di assumere l’identità altrui per compiere illeciti.
La “frode di identità” prevede diverse ipotesi illecite tra le quali: apertura di conti correnti bancari, la richiesta di rilascio di carte di credito, dell’ illecito utilizzo dell’altrui identità per realizzare acquisti di beni, servizi nonché vantaggi finanziari.
Varie sono le tecniche utilizzate per appropriarsi illecitamente dell’identità di un soggetto e tali modalità hanno subito un evidente incremento ed evoluzione perchè strettamente connesse ai naturali mutamenti delle abitudini di vita.
Tra i metodi più utilizzati:
Lo Skimming: clonazione della carta di credito effettuata durante l’operazione di prelievo;
Bin raiding: recuperare informazioni fiscali, estratti conto, bollette o qualsiasi altra documentazione riportante informazioni personali;
Il telefono cellulare di ultima generazione. Mediante la ricezione di messaggi che invitano a seguire link adducendo i più disparati pretesi intentando quindi una azione di phishing;
Richieste di informazioni generali in siti ove si naviga e dove ci si registra per poi effettuare prenotazioni o acquistare beni.
Phishing: trasmissione tramite posta elettronica di e-mail, apparentemente provenienti da Istituti di credito, che inducono il destinatario a fornire informazioni personali con le più svariate motivazioni ( riscossione di premi, sbloccare il conto corrente, ripristinare password ecc…);
Social network: veicolo di informazioni personali captate ed usate illecitamente.
Ipotesi illecita: sostituzione di persona (art.494 c.p.)
E’ evidente che il reato di sostituzione di persona è un illecito che con le nuove tecnologie è sempre più in aumento.
L’articolo 494 del c.p..così detta:
“ Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di arrecare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino a un anno”
E’ una ipotesi illecita inserita nel capo IV, sotto il titolo VII, denominato “della falsità personale” posto a tutela della pubblica fede, contro tutti quei comportamenti legati alla identità personale e caratterizzati dall’inganno ai danni di un numero indeterminato di individui che, nell’ambito dei rapporti sociali, devono dare fiducia a determinate attestazioni.
Per la configurazione della fattispecie criminosa è richiesto il dolo specifico (elemento soggettivo), quindi la volontà del reo di indurre qualcuno in errore ed il comportamento deve essere tale da procurare a sè o ad altri un vantaggio ( patrimoniale e non ) o arrecare danno al soggetto a cui è stata sottratta l’identità.
E’ evidente quindi che non tutte le condotte di sostituzione di persona sono perseguibili penalmente, il reato si configura:
quando l’ altro è tratto in errore sulla identità personale dell’autore;
quando i comportamenti sono posti in essere con dolo specifico con lo scopo di procurare a sè o ad altri un vantaggio o di recare un danno.
Tale norma trova la sua applicazione nell’ambito delle nuove tecnologie, pur non rientrando nelle previsioni dei crimini informatici introdotte con la Legge 547 del 1993.
Puntuale risposta della giurisprudenza al riguardo, è la sentenza n.46674 del 2007 della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna di un soggetto creatore un account di posta elettronica intestato ad un’altra persona, utilizzato per instaurare rapporti con altri utenti della Rete inducendoli, quindi, in errore.
A parere della Corte, il fatto in esame integrava gli elementi della fattispecie criminosa in esame (reato di sostituzione di persona) in considerazione del fatto che il comportamento posto in essere pregiudicava il bene tutelato dalla norma : la “fede pubblica”.
“Oggetto della tutela penale, in relazione al delitto preveduto nell’art.494 c.p. è l’interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali. E siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia di un determinato destinatario, così come il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome”
Postare immagini altrui. (Privacy, diritto d’autore e diritto all’immagine)
La questione assume rilievo sia da un punto di vista civilistico che penale.
L’immagine di un soggetto deve essere considerata sicuramente “dato personale”, così come previsto dall’art.4 della Legge 196/2003 sulla tutela della privacy e, ai sensi dell’art.13 dello stesso codice, il titolare del trattamento dei dati ha l’obbligo di informare preventivamente l’interessato che il suo dato (immagine fotografica) potrà formare oggetto di trattamento, dando la possibilità all’interessato di esercitare in qualsiasi momento i diritti previsti dall’art.7 della L.196/2003 per ottenere:
1. l’aggiornamento;
2. la rettificazione;
3. l’integrazione;
4. la cancellazione del dato trattato.
In tutto questo interviene anche la Legge sulla protezione del diritto d’autore L.633/41, indicando nel consenso (art.96) la scriminante che esclude la responsabilità di colui che pubblica l’immagine fuori dai casi consentiti dalla legge e detta:
“Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente .”
Non occorre il consenso se la persona è nota e neanche se è fotografata in virtù di qualche ufficio pubblico che ricopre, o per ragioni di giustizia o di polizia, oppure per scopi scientifici, didattici, culturali, oppure perché la riproduzione è legata a fatti, avvenimenti, cerimonie di pubblico interesse o che comunque si sono svolte in pubblico ( art.97)
Anche nei casi di esclusione, sopra esposti è necessario, comunque il consenso dell’interessato laddove l’esposizione o la messa in commercio possa arrecare danno alla reputazione ed al decoro della persona ritratta (comma 2 – articolo 97).
Il diritto all’immagine è, altresì, tutelato dal codice civile, integrato dalle disposizioni speciali della L.633/41, che all’articolo 10 così detta:
“ Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta,o pubblicata fuori dai casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni.”
Il legislatore ha, inoltre, previsto per le violazioni più gravi circa il trattamento dei dati personali, sanzioni penali puntualmente dettate dall’art.167 “trattamento illecito di dati” del codice in materia di protezione dei dati personali, che così recita:
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18.19.23.124.126 e 130, ovvero in applicazione dell’articolo 129,è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi.
Procedendo ad una attenta analisi del dettato, appare chiaro che gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa che devono necessariamente concorrere sono due:
1. “al fine di trarne per sé e per altri profitto oppure arrecare un danno ad altri” (elemento soggettivo).
Il termine “profitto” viene utilizzato dal legislatore al fine di abbracciare una vasta gamma di vantaggi e benefici che rivestono necessariamente carattere di natura economica-patrimoniale.
2. “se dal fatto deriva nocumento” , intendendo con detto termine una reale e tangibile lesione del bene sottoposto a tutela.
La Corte di Cassazione nel 2004 con la sentenza 26680, conferma la condanna di un uomo che aveva diffuso su Internet fotogrammi (scene di uno spogliarello) della sua ex fidanzata senza il consenso di quest’ultima.
Con riguardo al giudizio di colpevolezza, la Corte sottolinea che l’imputato non avendo accettato di buon grado la decisione della fidanzata di interrompere la loro relazione, aveva inviato numerosi messaggi telefonici e lettere, tanto da costringere la giovane donna a cambiare in due occasioni il suo recapito telefonico. La stessa, quindi, secondo quanto valutato dalla Corte, aveva ricevuto un reale danno ( nocumento ) dalla condotta del suo ex fidanzato che aveva, con il suo comportamento, leso la sua tranquillità nonché la sua immagine sociale.
Reato di ingiurie e diffamazione a mezzo internet
La già citata Legge 547/93, nonostante abbia previsto ed introdotto una serie di ipotesi illecite relativamente ai c.d.”reati informatici”, non ha previsto la possibilità della configurazione del reato di ingiurie e diffamazione perpetrato attraverso la Rete internet.
Al riguardo e a colmare tale lacuna, però, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che le fattispecie criminose previste dagli art.594 (ingiurie) e 595 (diffamazione) del c.p., ricomprendono anche tutti quei comportamenti lesivi dell’onore e del decoro di una persona che si realizzano attraverso le nuove forme di comunicazione nate grazie alle attuali tecnologie informatiche.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 4741 del 2000, al riguardo stabilisce:
“ Il legislatore, pur mostrando di aver preso in considerazione la esistenza di nuovi strumenti di comunicazione, telematici ed informatici, non ha ritenuto di dover mutuare o integrare la lettera della legge con riferimento a reati ( e, tra questi certamente quelli contro l’onore la cui condotta consiste nella ( o presuppone la) comunicazione dell’agente con terne persone. E tuttavia, che i rati previsti dagli articoli 594 e 595 c.p. possono essere commessi anche per via telematica o informatica, è addirittura intuitivo; basterebbe pensare alla cosiddetta trasmissione via e-mail, per rendersi conto che è certamente possibile che un agente, inviando a più persone messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del delitto di ingiuria ( se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di diffamazione ( se i destinatari sono persone diverse)”
Il reato di ingiuria è puntualmente previsto e punito dall’art.594 del c.p.:
“ Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi e con la multa fino a 516 euro. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino due milioni, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone.”
Dal corollario appare chiaro perché si configuri il reato di ingiuria è necessario che l’offesa sia compiuta alla presenza del soggetto offeso e che lo stesso ne abbia l’effettiva percezione della natura offensiva della pronuncia e/o della scrittura da parte del reo ( elemento soggettivo ).
L’articolo 595 de c.p. punisce invece la diffamazione e così detta:
“Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione è punito con la reclusione fino a u n anno o con la multa fino a due milioni. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a quattro milioni.Se l’offesa è recata con mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a un milione:”
Dall’analisi del testo emerge che affinchè si configuri il reato di diffamazione, è necessario che si realizzi la compresenza di tre elementi costitutivi:
1. l’assenza dell’offeso;
2. l’offesa deve riguardare l’altrui reputazione;
3. la percezione dell’offesa da parte di più persone.
In Italia una delle primissime sentenze in tema di risarcimento danni per diffamazione compiuta su social network ( facebook) è la sentenza 770 del 2 marzo 20010 del Tribunale Civile di Monza.
Quel giudice condannava un giovane al risarcimento del “danno morale soggettivo o, comunque del danno non patrimoniale” sofferti dalla persona per la subita lesione “della reputazione e dell’onore” cagionata mediante l’invio di un messaggio tramite il diffuso l social Network “Facebook”.
fonte. commissariatodips.it
AUTORE. Redazione