Matteo Messina Denaro - CastelvetranoCamminando per Palermo abbiamo incontrato il misteriosissimo F. A., quello che firma i murales alla maniera di Andy Warhol con la faccia del boss Matteo Messina Denaro. Fra i vicoli del Papireto e il mercato di Ballarò, prima ci è venuto incontro F. e poi è spuntato anche A.

L’autore che tutti cercano non è uno come si immaginava, come si diceva, come si sospettava. Sono due gli autori: Filippo e Alessandro. Studiano architettura, sono ragazzi estrosi, un po’ incazzati e molto sorpresi dal gran rumore che una certa antimafia ha fatto sul loro “gesto artistico”.

Sono passate due settimane da quando il “giallo dei murales” è andato in scena in una Palermo ancora più conformista del solito, con una maniacale attrazione per i suoi simboli, sospettosa come sempre e come sempre paurosa della sua ombra. Eccoli qui i fan dell’ultimo latitante di Cosa Nostra, quelli che “inneggiano” al tenebroso mafioso che ama i lussi e piace alle belle donne, i ritrattisti che hanno fatto diventare U’ Siccu – così lo chiamano i suoi fedelissimi Matteo Messina Denaro – addirittura un “idolo”.

Eccoli qui gli ultimi filo o para mafiosi della lunga lista di Palermo. Due ragazzi come tanti altri, vengono da famiglie normali, perbene. Uno – Filippo – ha i capelli arruffati e l’altro – Alessandro – ha i capelli dritti. Sembrano anche simpatici, spigolosi come lo sanno essere i ragazzini, curiosi, svelti di cervello.

“Ciao, io sono sono Filippo Bartoli, ho ventidue anni”, dice il primo. “E io sono Alessandro Giglio, anch’io ho ventidue anni”, si presenta il secondo mentre ci lasciamo alle spalle la magnifica cattedrale normanna e andiamo verso la città più spagnolesca, piazza Bologni, i Quattro Canti, via Maqueda. Siamo in zona, siamo proprio dove loro due – la notte del 20 gennaio – hanno disegnato su un muro vicino alla facoltà di Giurisprudenza e poi davanti al Duomo quattro volti del Padrino. Il segno del dollaro accanto, la “misteriosissima” sigla A. F e una scritta ancora più “inquietante”: L’Ultimo.

Per giorni e giorni tutti si sono scatenati alla caccia degli artefici dei murales. Polizia, carabinieri, magistrati, giornalisti. Per giorni e giorni sul loro conto si è detto tutto e il contrario di tutto. Oggi, per la prima volta Filippo e Alessandro parlano: “La nostra è stata solo una provocazione artistica verso una città troppo silenziosa e troppo immobile nei confronti dell’arte, con il nostro murales noi volevamo smitizzare un personaggio che è stato troppo mitizzato dai media. E invece…”. E invece Filippo Bartoli e Alessandro Giglio si sono ritrovati all’improvviso nella tempesta. Polemiche per quelle facce, le solite dietrologie siciliane – chi saranno mai gli autori, “a chi appartengono”, chi li manda – la coincidenza temporale dell’apparizione dei murales con il quarantaseiesimo compleanno del boss trapanese. Era il 28 di aprile.

Spiegano Filippo e Alessandro: “Erano passati quasi 100 giorni da quando avevamo fatto i murales e nessuno ci aveva fatto caso, se n’erano fottuti tutti…. poi “S”, un settimanale locale, ha pubblicato la foto della nostra opera come sfondo a un servizio su alcune lettere spedite da Messina Denaro e tutti i giornali e le tivù italiane a quel punto hanno sollevato un putiferio”. Sit in di protesta contro la “celebrazione mafiosa”, una valanga di dichiarazioni di “sdegno”, la vernice bianca che dopo due o tre giorni ha coperto quelle “vergogne”. Due eccezioni. Vittorio Sgarbi e il questore di Palermo Giuseppe Caruso. “Sono stati gli unici che hanno giudicato la nostra iniziativa per quello che era: un’espressione artistica”, raccontano i due ragazzi, secondo anno di architettura, un’amicizia fra loro che dura da anni. Sospirano: “Quella vernice bianca, la censura, è stata un colpo al cuore”.
Non se lo potevano neanche sognare tutto questo clamore. E le rimostranze, le “ribellioni”.

Dell’associazione “Mafia contro”, di quella dei familiari delle vittime della strage dei Georgofili. Parlano sempre insieme F. A: “Ci ha fatto paura non soltanto essere strumentalizzati ma anche in qualche modo attaccati da quelli che rappresentano i movimenti antimafia, i giornali, le tivù, il nostro è stato semplicemente un gesto artistico: punto. Nessuno l’ha visto o discusso come opera d’arte ma tutti se ne sono interessati solo “vedendoci” un significato più o meno mafioso”.

Siamo già arrivati ai Quattro Canti e Filippo e Alessandro ricostruiscono gli ultimi giorni. Per loro sono stati un inferno. Si sono sentiti braccati: “Quando a gennaio abbiamo fatto il murales, il nostro desiderio era quello di restare anonimi, poi però…”. Assediati da tutte le parti, si sono incontrati con il loro legale, l’avvocato Nino Caleca. Erano indecisi se parlare o non parlare, confusi.

Raccontano ancora: “Oggi siamo costretti ad uscire allo scoperto per il grande casino che si è creato, la cosa ci dà più fastidio è spiegare qualcosa che non c’è bisogno di spiegare, cioè un’espressione artistica: non si è mai visto che un artista fa la sua opera e poi deve giustificarsi per quello che ha fatto”.

E poi c’è il resto, un resto dove Filippo e Alessandro non c’entrano niente. Le altre facce di Matteo Messina Denaro comparse sui muri di Castelvetrano (il paese del boss), di Licata, di Sciacca. Altri murales. Firmati sempre F. A. Qualcuno si è appropriato della firma e ha “riprodotto” – in verità in forma molto più grossolana – il volto dell’ultimo latitante. Ripetono loro: “Con quelli noi non abbiamo nulla da spartire, sia chiaro”.

Tirano fuori un dischetto. Ci fanno vedere un altro murales, quello che campeggia sopra le scalinate della facoltà di Architettura, è la rappresentazione del Modulor di Le Corbusier in perfetta scala 2 metri e 26 centimetri per 3 metri e con un “Ehilà”, una scritta per svegliare tutti. Come in qualche modo volevano fare con Matteo Messina Denaro. È andata come è andata. Sono giovanissimi palermitani Filippo e Alessandro, sono “dentro” la loro città ma forse non abbastanza, Palermo è ancora troppo vischiosa e dolorante per vivere in libertà come altrove.

Per fortuna il direttore del Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia Sergio Alessandro ha compreso il loro spirito, ha capito tutto. Annuncia: “Questo caso lo prendo come occasione per organizzare un incontro pubblico sul tema della libera espressione, un seminario aperto a curatori, critici, se un museo di arte contemporanea non si apre ai giovani artisti chi lo dovrebbe fare?”. Filippo e Alessandro si guardano e il “giallo dei murales” si scioglie con il primo caldo dell’estate siciliana.

(repubblica.it)

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